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La strategia di Hamas nella guerra contro Israele, l'allarme nel "venerdì della rabbia": intervista a Dentice

Qual è il piano di Hamas e perché ha attaccato Israele: le risposte sulla guerra nell'intervista a Giuseppe Dentice (Ce.SI) nel "venerdì della rabbia"

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Quasi 3 mila morti, tra israeliani e palestinesi, in meno di una settimana. È questo il bilancio della nuova guerra in Medio Oriente, scatenata dall’attacco terroristico di Hamas di sabato 7 ottobre, mentre prosegue l’assedio della Striscia di Gaza con Israele che ha tagliato luce, acqua e benzina. L’Esercito di Benjamin Netanyahu ha dato ordine di evacuazione per la popolazione palestinese della zona nord della Striscia: via entro 24 ore per oltre un milione di persone. Un ordine a cui si è opposta l’Onu (così come Hamas, che avrebbe bloccato la fuga dei civili palestinesi) e che arriva nel venerdì islamico, il giorno in cui i musulmani si recano alla moschea per le preghiere pubbliche dette Jumuʿa. E cresce l’allerta in tutto il Medio Oriente – ma anche nel resto del mondo – per il “venerdì della rabbia” dopo la chiamata di Hamas a manifestazioni contro Israele. Ma qual è la strategia dell’organizzazione? E perché ha attaccato Israele proprio adesso? L’intervista concessa a Virgilio Notizie da Giuseppe Dentice, dottore di ricerca in Istituzioni e politiche all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, oltre ad essere responsabile del Desk Medio Oriente e Nord Africa del Centro Studi Internazionali (Ce.SI).

Il contesto nei Paesi arabi e la causa palestinese

Secondo Giuseppe Dentice, allo stato attuale, “nessun Paese è interessato a prendere una posizione ufficiale e a una discesa in campo, perché ci sono tanti interessi in gioco”.

L’esperto sollinea che nei Paesi arabi “con gradazioni diverse sì, ma dappertutto la popolazione ha un forte sentimento di fidelizzazione, soprattutto di identità comune, con la causa palestinese. Però ci sono tanti motivi che portano tutti i Paesi a essere accorti”.

hamas israele guerra intervista denticeFonte foto: ANSA
Palestinesi in fuga da Gaza dopo l’ultimatum di Israele

L’intervista a Giuseppe Dentice

L’ex capo di Hamas Khaled Meshaal ha rivolto un appello a tutto il mondo musulmano a scendere in strada oggi dopo la preghiera per manifestare sostegno ai palestinesi e affinché i popoli dei Paesi vicini si uniscano contro Israele. I popoli di Giordania, Siria, Libano ed Egitto, dice, hanno il dovere più grande di sostenere i palestinesi, perché, ha detto, “i confini sono vicini a voi”. Che valore – e che presa – hanno queste parole?

“È un richiamo alla preghiera ma anche un appello alla mobilitazione. Quello di Meshaal non è solo un appello all’unità del mondo arabo e musulmano contro Israele e il mondo occidentale suo alleato. L’aspetto particolare è che è anche una richiesta di aiuto economico, di aiuto concreto, per sostenere le attività di Hamas. E questo non è un dettaglio da poco, visto che in questi giorni si parla molto di come sia stato possibile quello che è successo. Vuole essere una misura di pressione nei confronti del mondo israeliano, dei simboli dell’ebraismo e anche di tutto l’Occidente. Non a caso nei giorni scorsi si è parlato insistentemente, anche in Italia, di rischio attentati e di atti di emulazione. È successo in Egitto poche ore dopo l’offensiva di Hamas, quando due turisti israeliani sono stati uccisi da un uomo armato che ha aperto il fuoco su un autobus ad Alessandria. Non sappiamo se fosse l’inizio di qualcosa o un atto isolato. Ma è chiaro che questo tipo di situazione ha prodotto allarmismo e misure di rafforzamento della sicurezza delle comunità ebraiche in tutto il mondo”.

Si aspetta attentati? 

“Ovviamente mi auguro di no, ma è possibile. Più che in Occidente, non escluderei situazioni di pericolo in altre parti di Medio Oriente. Perché, come spesso tendiamo a dimenticare, anche quando si parla di terrorismo dell’Isis o di Al Quaeda, per esempio, dobbiamo ricordare che le vittime dei loro attacchi sono soprattutto musulmani. Quegli atti sono dei messaggi. L’attenzione quindi è certamente verso Europa, Stati Uniti, Canada e Israele, ma non è esclusa l’ipotesi di attentati o situazioni borderline in Egitto, per esempio, o in Giordania, ovvero Paesi partner dell’Occidente nell’agenda politica ed economica internazionale, non solo per la lotta al terrorismo. O in altre zone del Medio Oriente”.

Il mondo arabo come ha accolto l’appello di Hamas al venerdì della rabbia?

“L’accoglienza è stata varia. Hamas, ricordiamolo, non rappresenta il mondo palestinese tutto, ma è una delle sue anime. Quando parla, lo fa in primis al suo popolo e cerca di raccogliere accoliti. È evidente che oggi, nel mondo palestinese, c’è una forte rabbia nei confronti di Israele: rabbia che non necessariamente collima con un sentimento pro-Hamas. I due piani sono separati. Altrimenti si fa il gioco di Hamas: sostenere che se Hamas è terrorista allora tutti i palestinesi sono terroristi è un lusso che non ci possiamo né dobbiamo permettere. Una parte del mondo arabo e musulmano ha accolto anche con vigore le parole di Meshaal, che è uno dei fondatori di Hamas ma anche uno dei leader storici, in generale, dell’eterogeneo mondo della resistenza palestinese. C’è anche un’altra parte però che è rimasta indifferente o poco interessata all’annuncio, ma ha solidarizzato con forza e senza dubbio con la popolazione civile di Gaza. E l’ordine di evacuazione in 24 ore da parte di Israele, un ordine impossibile da gestire, dimostra quanto le vittime reali delle guerre come sempre sono le popolazioni, quelle israeliane da un lato ma anche quelle palestinesi – e soprattutto Gaza, che si appresta a essere il teatro principale di questa guerra”. 

C’è un pericolo di un allargamento del conflitto? 

“Se guerra ci sarà, come pare ormai probabile, uno degli impatti più plausibili è l’allargamento e il coinvolgimento di altri scenari: la Cisgiordania ma anche il confine nord del Libano e della Siria, teatri storicamente avversi a Israele. Ricordiamo che il Libano non ha mai firmato un trattato di pace con Israele, né lo ha fatto la Siria. Sono due paesi che storicamente, non solo con Hezbollah ma dal 1948 in poi, hanno avuto conflitti con Israele all’interno di quello che viene tradizionalmente dipinto come il conflitto arabo-israelo-palestinese. Hezbollah nasce più tardi, nel 1982, e nasce come movimento sciita, tradizionalmente molto vicino alla retorica iraniana ma come prodotto della rivoluzione culturale iraniana del 1979. Hezbollah in questi giorni ha minacciato, e poi lo ha eseguito, il lancio di colpi di mortaio e di razzi. Lo stesso è successo con la Siria, che ha visto smuovere il teatro con lanci di missili. Di conseguenza c’è stato un raid aereo israeliano che ha colpito obiettivi militari in Siria e in Libano, presumibilmente convogli di armi provenienti dall’Iran. Si tratta di un messaggio da parte di Israele che avvisa di essere pronto a colpire. Hezbollah, le milizie sciite – il regime di Assad? non lo sappiamo – sono pronti a farsi coinvolgere. Ma anche qui ci sono dei però”. 

Il Libano, per esempio, è in crisi: un Paese al dissesto…

“E infatti in tanti, pur simpatizzando con la causa palestinese, dicono che questa non è la loro guerra. Perché sanno perfettamente che è una guerra che non possono sostenere e per questo hanno chiesto espressamente a Hezbollah di non intervenire. Hezbollah dal canto suo, con ambiguità, ha detto di non essere interessato a entrare in conflitto, ma che è necessario tenere conto di quello che succede. Forse un interesse a entrare in maniera diretta nel conflitto, da parte di Hezbollah, quindi non c’è, ma esercitare pressioni nei confronti di Israele certamente sì. Non possiamo dire se di concerto con Teheran, ma possiamo pensare che ci siano contatti costanti. In quest’ottica va letta la visita del ministro degli Esteri iraniano che ieri è volato a Beirut e ha incontrato la leadership di Hezbollah”. 

E la Siria?

“Anche quello è un teatro strategico e importante, la connessione con il conflitto israelo-palestinese è profonda. Ma la Siria e soprattutto gli Emirati Arabi Uniti (EAU) hanno spinto in questi anni per cercare di creare una distensione e in parte ci sono riusciti. Ora gli Emirati Arabi Uniti hanno minacciato, neanche troppo velatamente, il regime di Assad dicendo che se la Siria entra in guerra loro tagliano i viveri. Gli EAU sono un attore fondamentale di quel processo di normalizzazione con Israele del settembre 2020 che ha il nome di Accordi di Abramo. Quindi il loro intervento non è casuale. Bisogna quindi vedere se la Siria vuole esercitare pressioni o se si vuole mettere in una guerra che non potrebbe gestire, visto che la sua, di guerra non mi pare sia terminata né il paese non vive in condizioni di agio”. 

E poi c’è l’Iran, costantemente tirato in ballo…

“E anche qui non abbiamo la certezza, lo dicono gli israeliani e non io, che l’Iran sia dietro all’offensiva di Hamas. È possibile ci sia stata una collaborazione pianificazione, ma materialmente, ad oggi, dobbiamo parlare di un’offensiva di Hamas. Ovvio però che l’Iran è attore interessato. Per Israele, per un quadro regionale – ancora, gli accordi di Abramo – per gli accordi con l’Arabia Saudita e quel tentativo di normalizzazione che Rihad e Tel Aviv stavano portando avanti. In quest’ottica deve essere lette la chiamata che ha fatto il presidente iraniano Ebrahim Raisi a Mohammad bin Salman Al Sa’ud, principe ereditario dell’Arabia Saudita e factotum delle politiche del Paese. Una telefonata in cui si è discusso della crisi di Gaza, ma soprattutto in cui Raisi ha ricordato l’importanza della de-escalation tra Arabia Saudita e Iran: il riferimento è a quell’accordo del marzo 2023 mediato dalla Cina – sembra quasi un’era geologica fa – in cui i due Paesi si impegnavano, dopo decenni di conflittualità più o meno latente, a intraprendere un processo di distensione che voleva portare su altri binari la regione. È ovvio che Teheran ha interesse a mandare allo sbando qualsiasi tentativo di mediazione, ma anche di impedire che Israele e Arabia Saudita possano trovare una qualche sintonia che possa poi produrre un accordo di normalizzazione delle relazioni. L’Iran quindi si muove – o non si muove apertamente – con un dichiarato interesse di creare pressioni sul mondo arabo e su Israele. È un gioco pericoloso però, perché a lungo andare poi porterà il Paese a dover prendere una posizione ufficiale ed esporsi”. 

Qual è la strategia di Hamas? Cosa vuole ottenere?  

“Sarebbe bello saperlo. Se la strategia era quella di creare imbarazzi e incertezze in Israele, l’operazione è riuscita ma sarebbe miope, perché non si possono non considerare le risposte. E sempre al netto della popolazione che è quella che subisce in primis le violenze di Hamas. Se dietro c’è un’idea, supportata da altri attori e partner più o meno dichiarati di Hamas – Hezbollah, milizie che si richiamano a un mondo anti-israeliano e l’Iran – allora dietro c’è un disegno regionale di riordino e di ridefinizione degli equilibri. La modalità dell’attacco che è stato lanciato, il suo impatto psicologico, mi suggeriscono che presumibilmente l’idea è quella di uno stravolgimento. Stravolgere quell’idea fasulla di status quo che abbiamo raccontato per oltre 20 anni, basato sul fatto che la condizione del conflitto israelo-palestinese dovesse rimanere congelata a favore di processi di distensione regionali che escludessero quello che è di fatto è il problema dei problemi in Medio Oriente. Non sono solitamente iperbolico, ma mai come in questo caso parliamo di una fase completamente diversa, di un conflitto completamente nuovo e di un’idea completamente differente di Medio Oriente“. 

Cos’è il “venerdì della rabbia”

Hamas ha chiesto una “giornata della rabbia” chiamando il mondo arabo a una grande mobilitazione a sostegno dei palestinesi.

L’obiettivo è prendersi visibilità per fermare “i piani israeliani per giudaizzare Gerusalemme e Al-Aqsa”, dice l’organizzazione, invitando “i popoli arabi e musulmani e i palestinesi da ogni luogo a marciare verso i confini della Palestina occupata in solidarietà con la Palestina, Gerusalemme e la Moschea di Al-Aqsa”.

L’ex capo politico di Hamas, Khaled Meshaal, ha lanciato un appello sottolineando come sia “necessario andare nelle piazze del mondo arabo e islamico venerdì”, aggiungendo che i popoli di Giordania, Siria, Libano ed Egitto hanno il “dovere più grande di sostenere i palestinesi”.

hamas-guerra Fonte foto: Ce.SI - ANSA
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