Julian Assange rischia estradizione e 175 anni di carcere: cosa può succedere secondo Tina Marinari (Amnesty)
Julian Assange rischia di finire in un carcere degli Stati Uniti e di non uscirci più per una condanna monstre: gli scenari secondo Tina Marinari di Amnesty International
La resa dei conti. Il momento finale, quello decisivo, il punto di non ritorno di una battaglia giudiziaria e sui diritti umani – nonché sui destini del giornalismo – che dura da troppi anni. Martedì 20 e mercoledì 21 febbraio Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks, affronta quelle che, secondo sua moglie Stella, potrebbero essere le sue “udienze finali”, destinate a stabilire “se vivrà o morirà”. L’australiano più famoso al mondo attende in prigione a Londra, in attesa di sapere se l’appello contro l’estradizione negli Stati Uniti – dove rischia una condanna a 175 anni di carcere – verrà accolto o meno. Sullo sfondo tantissime associazioni, tra cui Amnesty International Italia: l’intervista a Tina Marinari concessa a Virgilio Notizie.
L’appello di Julian Assange
L’Alta Corte di Londra deve decidere se accogliere o meno l’appello della difesa di Assange contro la procedura di estradizione negli Stati Uniti.
Negli Usa, l’attivista e giornalista australiano rischia fino a 175 anni di carcere per aver pubblicato documenti coperti da segreto relativi alle guerre in Iraq e Afghanistan.
Tina Marinari (a sinistra) e Stella Assange, moglie del fondatore di WikiLeaks
È l’ultimo tentativo di bloccare la sua consegna agli Usa, decisione di fatto già autorizzata a livello politico dal tribunale britannico in primo grado.
“È il momento finale. L’ultima chance che ha il team di Assange per chiedere l’appello nel Regno Unito”, spiega a Virgilio Notizie Tina Marinari di Amnesty International Italia.
L’intervista a Tina Marinari
Cosa accadrà nelle prossime ore?
“La corte britannica, formata da tre giudici, dovrà decidere se concedere una nuova possibilità di appello per Julian Assange oppure procedere all’estradizione così come richiesto dagli Stati Uniti”.
Cosa rischia Assange se dovesse essere estradato negli Stati Uniti?
“175 anni di carcere per aver fatto il suo lavoro, e cioè per aver denunciato i crimini di guerra commessi dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna durante le guerre in Afghanistan e Iraq. Con la sua storia mettiamo in pericolo tutto il mondo del giornalismo, perché se Assange dovesse essere estradato per il lavoro fatto verrebbe messo a repentaglio tutto il giornalismo di inchiesta. Ovunque”.
Ci sono anche timori che negli Stati Uniti possa non avere un processo giusto?
“Ci sono varie preoccupazioni. Prima di tutto Assange sarebbe giudicato con l’accusa di aver violato l’Espionage Act per la pubblicazione di informazioni governative coperte da segreto. È qualcosa che non ha precedenti: sarebbe la prima volta in cui un giornalista viene accusato di spionaggio e processato per questo negli Stati Uniti. Un precedente gravissimo. In più, a questo, dobbiamo aggiungere i nostri timori per eventuali torture e maltrattamenti. Sappiamo che il carcere duro negli Stati Uniti desta preoccupazioni in tutte le organizzazioni che si occupano di diritti umani. Le rassicurazioni che gli Stati Uniti hanno dato alla corte inglese, in cui dichiarano che i diritti fondamentali di Assange saranno garantiti durante la detenzione ma che si riservano il diritto di cambiare la modalità di detenzione, nel caso in cui ci fossero atteggiamenti poco collaborativi, lasciano un margine di manovra troppo ampio”.
Che sensazione avete rispetto alla decisione dell’alta corte di Londra?
“Chi può dirlo. Quello che però si può e si deve raccontare è l’attenzione mediatica, anzi – più che mediatica – della società civile per questo caso.È diventata parte integrante della difesa di Assange. Solo in Italia abbiamo riempito più di 30 piazze: noi di Amnesty, insieme ai vari comitati Free Assange Italia, ma anche insieme a tantissimi liberi cittadini e cittadine. Persone indipendenti da qualsiasi organizzazione o associazione, ma che vedono in Assange un caso emblematico per cui scendere in piazza. Nei media mainstream invece non abbiamo visto così tanta attenzione”.
Perché la figura del fondatore di WikiLeaks ha assunto questa importanza simbolica? Perché smuove le piazze?
“Secondo me perché la speranza è quella di poter ancora dare un significato alla parola giustizia. Julian Assange è in carcere per aver denunciato dei crimini di guerra. Se queste parole hanno ancora un significato, abbiamo bisogno di avere un Julian Assange libero. È l’idea di poter ancora credere in quei principi democratici di giustizia e rispetto del diritto internazionale”.
Cosa farà Amnesty International e cosa farà la società civile in caso di estradizione?
“Non ci fermeremo. Avremo bisogno di iniziare a lavorare in maniera ancora più massiccia con il Governo degli Stati Uniti. Un giornalista non può essere condannato con l’accusa di spionaggio semplicemente per aver fatto il suo lavoro per il bene della società. Questo principio non può essere seppellito”.