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Covid, donare il plasma serve? Cosa sappiamo sulla cura di De Donno

Cos'è, come funziona, studi ed efficacia della contestata terapia. Covid, donare il plasma serve? Cosa sappiamo sulla cura di De Donno

Di: VirgilioNotizie | Pubblicato:

Il suicidio dell’ex primario dell’Ospedale di Mantova, Giuseppe De Donno, ha riportato al centro del dibattito pubblico la terapia a base di plasma iperimmune. Il medico infatti era uno dei principali sponsor, in Italia, della cura che piaceva anche a Matteo Salvini (con il quale De Donno ha fatto anche qualche diretta video) e che ha diviso il mondo dei social e un po’ meno quello della ricerca.

Nonostante la pandemia non sia finita, oggi possiamo avere accesso non soltanto a un maggior numero di studi riguardanti la divisiva terapia, ma anche a un dibattito pubblico (forse) meno infuocato e confusionario rispetto a quello della prima ondata. La morte del medico potrebbe essere quindi l’occasione di tornare su un tema che in molti associano alla sua tragica decisione finale: il plasma iperimmune funziona davvero?

Che cos’è e in cosa consiste il plasma iperimmune

Secondo la definizione dell’Istituto Superiore di Sanità “il plasma iperimmune è il plasma ottenuto da persone con una elevata quantità di anticorpi (immunoglobuline iperimmuni) contro uno specifico microrganismo o antigene (sostanza riconosciuta dal sistema immunitario che provoca la formazione di anticorpi)”. II plasma iperimmune è quindi plasma sanguigno – quindi una componente del sangue – presente sia nelle persone che si sono sottoposte alla vaccinazione nei confronti di uno specifico microrganismo, sia nelle persone che sono convalescenti dalla malattia che uno specifico microrganismo fa sviluppare. La stessa cosa vale anche per il virus SARS-CoV-2 e infatti la terapia con plasma da soggetti convalescenti prevede il prelievo da persone guarite dal Covid e la successiva somministrazione a pazienti ancora affetti.

Come funziona la terapia a base di plasma iperimmune e come donare

Chi è guarito dalla malattia e intende donare gli anticorpi, deve seguire una procedura caratterizzata da controlli più rigidi rispetto a quelli previsti per la semplice donazione del sangue. Il primo step è la compilazione del questionario di idoneità, contenente però requisiti addizionali e specifici per il SARS-CoV-2, quindi la palla passa a un medico, responsabile della selezione, che valuterà l’idoneità del donatore.

Saranno a questo punto necessari una serie di test in laboratorio, per, ad esempio, valutare il numero di “anticorpi neutralizzanti” contenuti nel plasma. Le analisi valuteranno anche l’idoneità per il ricevente, che, nonostante l’infezione in corso, non ha sviluppato anticorpi propri, che potrà ricevere da chi è guarito tramite una trasfusione. Gli anticorpi sviluppati da chi è risultato negativo al tampone potrebbero a questo punto legarsi all’agente patogeno di chi è positivo al Covid, “neutralizzandolo” e favorendone la guarigione.

Per donare il plasma iperimmune, qui tutte le informazioni che è necessario sapere e l’elenco dei centri di raccolta.

A che punto sono gli studi sulla terapia al plasma iperimmune

La terapia con plasma iperimmune è stata ampiamente utilizzata in passato: ad esempio per guarire chi ha contratto la SARS del 2002 e il virus Ebola. Le prime esperienze risalgono addirittura al XIX secolo ed è ovvio, quindi, che si sia pensato di utilizzare la terapia con plasma iperimmune anche per curare i pazienti affetti dal coronavirus. Con quali risultati? “Gli studi clinici ad oggi condotti (…) non riportano chiare prove sulla sua efficacia terapeutica e, pertanto, questa terapia è ancora da considerarsi sperimentale”, queste la parole che è possibile leggere sul sito dell’ISS.

Sulla pagina informativa dedicata sul sito del Centro Nazionale del Sangue, si citano alcuni studi italiani e internazionali, che tuttavia mancano di “evidenze scientifiche conclusive”. Per il Centro, “l’eventuale efficacia (…) potrà essere dimostrata solo dai risultati di studi clinici che mettano a confronto pazienti trattati con plasma iperimmune e pazienti trattati con altra terapia, ovvero i cosiddetti “trial clinici randomizzati”. Della stessa opinione l’Ordine Nazionale dei Biologi della Puglia: “In attesa di ulteriori evidenze scientifiche ed in considerazione del fatto che gli studi clinici ad oggi condotti non riportano chiare prove sull’efficacia terapeutica del plasma iperimmune in soggetti COVID-19, tale terapia è ancora da considerarsi sperimentale”.

Qualche elemento di certezza in più è arrivato da TSUNAMI, uno studio nazionale comparativo randomizzato, attivato su indicazione del Ministero della Salute e promosso dall’ISS in collaborazione con l’AIFA. L’acronimo sta per TranSfUsion of coNvaleScent plAsma for the treatment of severe pneuMonIa due to SARS-CoV-2. La chiave per comprendere l’importanza di TSUNAMI è la parola “randomizzato”: significa che viene condotto su un gruppo di persone che, in parte, ricevono il plasma iperimmune, in parte invece sono trattate con un placebo o un trattamento diverso. Tramite il confronto è quindi più facile riscontrare l’efficacia del prodotto.

Perché alcuni ritengono poco efficace la terapia al plasma

Nel caso di TSUNAMInon è stata osservata una differenza statisticamente significativa nell’end-point primario”, ovvero nella “necessità di ventilazione meccanica invasiva” o nel “decesso entro trenta giorni dalla data di randomizzazione”. Lo scrive l’AIFA, che ha partecipato alla sperimentazione: “Nel complesso TSUNAMI non ha quindi evidenziato un beneficio del plasma in termini di riduzione del rischio di peggioramento respiratorio o morte nei primi trenta giorni”, questa la conclusione dell’agenzia farmacologica italiana.

Agli stessi esiti sono pervenuti altri studi randomizzati, tra cui “A Randomized Trial of Convalescent Plasma in Covid-19 Severe Pneumonia”, pubblicato sul New England Journal of Medicine. Lo stesso National Institutes of Health (NIH), principale agenzia degli Stati Uniti, responsabile della ricerca in campo medico, “non raccomanda l’uso di plasma convalescente (…) per il trattamento di COVID-19”, specialmente per i pazienti ospedalizzati la cui immunità non risulta compromessa.

Altri scettici sottolineano che la cura con plasma iperimmune fornisce un’immunizzazione passiva, nel senso che il malato non sviluppa autonomamente gli anticorpi neutralizzanti contro il Covid. La cura quindi non è da preferire ai vaccini. Anche per questo Raffaele Bruno, direttore di Malattie infettive presso l’ospedale San Matteo di Pavia, ha affermato in televisione che “la terapia non è sicuramente la soluzione del problema, ma un ulteriore aiuto nel cercare di combattere questa malattia”.

Bruno ha collaborato alla sperimentazione dell’ospedale di Mantova, alla quale ha partecipato anche il medico morto suicida Giuseppe De Donno. Nello studio, pubblicato sulla rivista scientifica Mayo Clinic Proceedings: Innovations, Quality and Outcomes, si è evidenziato come la terapia al plasma iperimmune riducesse la mortalità del 65% nei pazienti trattati (22, tutti anziani). Tuttavia quello di De Donno non risulta essere uno studio randomizzato, ma prospettico.

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cura-al-plasma-funziona-2 Fonte foto: ANSA
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