Covid, plasma iperimmune per pazienti gravi: lo studio sull'efficacia
Dai dati di uno studio internazionale sarebbe emersa la scarsa efficacia del plasma iperimmune nelle forme più critiche di Covid-19
L’utilizzo del plasma iperimmune sarebbe nella maggior parte dei casi non efficace nella cura delle forme gravi di Covid-19. È quanto emerso da uno studio clinico legato al programma di sperimentazioni Remap-cap, pubblicato sulla rivista Jama e riportato da Wired, che ha coinvolto migliaia di pazienti in tutto il mondo.
“Con questi risultati oggi possiamo mettere fine all’uso del plasma iperimmune nei pazienti con Covid-19 grave e concentrarci sui trattamenti che sappiamo funzionare, oltre che sullo sviluppo e sulla sperimentazione di trattamenti migliori”, è quanto sostenuto da Brian McVerry, ricercatore della University of Pittsburgh Medical Center.
Secondo quanto chiarito dagli autori dello studio, all’inizio della pandemia da Covid-19, in piena emergenza e senza una terapia ben definita contro l’infezione da coronavirus, il ricorso al plasma iperimmune poteva rientrare tra i tentativi per curare la malattia.
I dati raccolti dal Remap-cap (Randomised, Embedded, Multifactorial, Adaptive Platform Trial for Community-Acquired Pneumonia) hanno evidenziato che con la trasfusione di due unità di plasma iperimmune in malati di Covid-19 in condizioni critiche non sono state riscontrate sostanziali differenze nel miglioramento dell’infezione rispetto a quanto rilevato in pazienti gravi trattati con terapie standard, senza il supporto di macchinari per la respirazione.
Un contributo più utile per fermare la progressione della malattia sarebbe stato registrato nei pazienti immunocompromessi, ma in misura troppo bassa per essere rilevante e che necessita di ulteriori approfondimenti.
“Potrebbe essere che i pazienti con un sistema immunitario compromesso, che non sono in grado di sviluppare una risposta immunitaria efficace, possano comunque beneficiare degli anticorpi presenti nel plasma sanguigno dei pazienti guariti da Covid, specialmente all’inizio della malattia”, ha detto Lise Estcourt, dell’Università di Oxford e direttore dell’Unità per le sperimentazioni cliniche del sangue e dei trapianti del National Health Service del Regno Unito.