Liliana Segre, l'ultimo intervento pubblico: le sue parole
L'intervento della senatrice Liliana Segre, sopravvissuta all'Olocausto, nella sua ultima testimonianza pubblica
“Nel mio racconto c’è la pena, la pietà per quella ragazzina che ero io e che adesso sono la nonna di quella ragazzina. So che è difficile vedendo una donna di 90 anni pensare che quella era una ragazzina”. Lo ha detto la senatrice a vita Liliana Segre nella sua ultima testimonianza pubblica alla Cittadella della pace di Rondine, vicino Arezzo. “Non ho mai perdonato, come non ho dimenticato, certe cose non sono mai riuscita a perdonarle”, ha detto.
Ad onorarla e ad ascoltare le sue parole il presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte, la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, il presidente della Camera dei Deputati Roberto Fico e i ministri Lamorgese, Di Maio, Azzolina e Manfredi.
“Un giorno di settembre del 1938 sono diventare l’altra. So che quando le mie amiche parlano di me aggiungono sempre la mia amica ebrea. E quel giorno a 8 anni non sono più potuta andare a scuola”.
“Ero a tavola – ha raccontato – con mio papa e i nonni e mi dissero che ero stata espulsa. Chiesi perché, ricordo gli sguardi dei miei, mi risposero perché siamo ebrei, ci sono delle nuove leggi e gli ebrei non possono fare più una serie di cose”.
“Se qualcuno legge a fondo le leggi razziali fasciste una delle cose più crudeli è stato far sentire invisibili i bambini. Molti miei compagni non si accorsero che il mio banco era vuoto”.
“Quando si toglie l’umanità alle persone bisogna astrarsi e togliersi da lì col pensiero se si vuole vivere. Scegliere sempre la vita. Io sono viva per caso. Perché tutte sceglievano la vita, poche quelle che si sono suicidate anche se era facilissimo”.
“Sono stata clandestina e so cosa vuol dire essere respinti. Si può essere respinti in tanti modi”, ha detto la senatrice a vita.
“Il campo di sterminio – ha ricordato Segre – funzionava alla perfezione, da anni, non c’era il minimo errore. Cominciammo a capire che dovevamo cominciare a dimenticare il proprio nome, che nella tradizione ebraica ha un significato. Mi venne tatuato un numero sul braccio e dopo tanti anni si legge ancora bene, 75190. E dovemmo subito impararlo in tedesco”.
“Quando entrai ad Auschwitz non avevo ancora studiato Dante, lo studiai dopo, ed eravamo condannate a delle pene ma non c’era il contrappasso: pensavo di essere impazzita. Non racconto mai tutti i dettagli della mia prigionia”.
“A 13 anni – ha aggiunto – ero una ragazzina e mi dettero qualche anno in più, così fui scelta con altre 30 ragazze italiane ebree. Tutte le altre andarono alle camere a gas e così successe con gli uomini. Scesi dal treno vidi mio padre lo salutai e non lo vidi mai più“.
Nel lager, “quando non si ha niente, si ha solo il proprio corpo che dimagrisce a vista d’occhio, è molto difficile, salvo che nei romanzi, formare amicizie perché la paura di morire per un passo falso o un’occhiata, ti fa diventare quello che i tuoi aguzzini vogliono che tu sia: che tu diventi disumana, egoista. Dopo il distacco da mio padre il terrore di diventare amico di qualcuno e poi perderlo mi faceva preferire la solitudine, io aveo paura di perdere ancora qualcosa”.
“Per un attimo vidi una pistola a terra, pensai di raccoglierla. Ma non lo feci. Capii che io non ero come il mio assassino. Da allora – ha affermato Segre – sono diventata donna libera e di pace con cui ho convissuto fino ad adesso”.