Perché aumentano gli sbarchi a Lampedusa e cosa dovrebbero fare Meloni e Ue secondo l'ammiraglio De Felice
Riprendono gli sbarchi dei migranti a Lampedusa. L’ammiraglio De Felice spiega perché e indica una strategia: “Mettere piede a terra in Tunisia”
Dopo un calo degli sbarchi a Lampedusa, in occasione della visita congiunta della premier Giorgia Meloni e della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, sull’isola sono ripresi gli arrivi dei migranti. Il Governo, nell’ultimo Consiglio dei ministri, ha varato nuove norme straordinarie, ma non solo: “Al prossimo Consiglio europeo informale di ottobre l’Italia chiederà agli altri Stati membri di assumere le decisioni necessarie e conseguenti, soprattutto in tema di blocco delle partenze illegali dal Nord Africa”, ha annunciato la leader di Fratelli d’Italia. Ma come si può attuare lo stop e perché si è assistito a un aumento degli arrivi sulle coste italiane? Che fine ha fatto il blocco navale? A queste domande, ai microfoni di Virgilio Notizie, ha risposto l’ammiraglio di Divisione (R) Nicola De Felice, autore del libro Fermare l’invasione – Le ragioni del blocco navale: “Il blocco navale in realtà non è mai stato applicato”.
La situazione a Lampedusa
Dopo la visita di Giorgia Meloni e di Ursula von der Leyen, l’hotspot di Lampedusa resta affollato.
In seguito all’ondata di arrivi, lunedì 18 settembre si contano circa 1300 ospiti.
I trasferimenti programmati già da ieri sera per svuotare la struttura, infatti, sono saltati perché l’area di transito di Porto Empedocle è ormai stracolma.
L’intervista all’ammiraglio Nicola De Felice
Le opposizioni ricordano come del blocco navale, in campagna elettorale, ne avesse parlato proprio la premier. Nei fatti non si è realizzato: cn cosa consiste e perché non si è applicato?
“Un blocco navale in chiave moderna, non certo con le modalità risalenti ai tempi di Napoleone, è possibile da attuare, ma occorrono le giuste direttive. Non significa, quindi, bloccare in tutto e per tutto i porti, ma piuttosto consiste in una interdizione navale sulle sole imbarcazioni nelle acque territoriali del Paese in questione. In questo caso della Tunisia, da cui proviene la maggior parte dei migranti”.
Perché non si è proceduto con questo tipo di strategia?
“Per prima cosa occorre il consenso del Paese di transito, quindi del Governo di Tunisi, all’intercetto e sequestro delle imbarcazioni, e all’arresto degli scafisti. Serve anche un’attività precedente di convincimento e collaborazione con lo Stato in questione, che deve prevedere una cooperazione diplomatica, militare ed economica con il Paese stesso. Insomma, non stiamo parlando di mettere le navi davanti alle coste della Tunisia. Certo, per attuare un blocco navale di questo tipo occorrono le persone giuste nei posti giusti”.
Cosa significa? Non basta un Commissario straordinario per gestire il flusso di migranti?
“Il Commissario straordinario all’immigrazione non è sufficiente e soprattutto non è la figura più indicata. Un prefetto o un questore hanno una visione più orientata all’interno, all’Italia, e hanno il solo mandato di distribuire i migranti che arrivano sulle coste. Lo stesso ministro dell’Interno (Matteo Piantedosi, ndr) ha un’esperienza maturata nel campo della gestione dell’ordine e della sicurezza interna del nostro Paese”.
Che tipo di figura sarebbe necessaria e quale potrebbe essere l’azione da svolgere a livello europeo?
“Penso che si dovrebbe nominare un Commissario straordinario su modello di un incaricato speciale come quello che a suo tempo ha gestito la Brexit, permettendo un dialogo con il Regno Unito per trovare una soluzione di compromesso. Servirebbe un mandato a un responsabile, magari italiano, che possibilmente abbia un’esperienza militare e diplomatica, e una conoscenza dell’area del Maghreb e della Sicilia. Con le giuste deleghe potrebbe tenere i contatti con i Paesi di origine (nella regione sub-sahariana, ndr) e di transito dei migranti, coordinando il pattugliamento congiunto in acque territoriali tunisine”.
Come intervenire concretamente su un fenomeno di queste dimensioni?
“Il problema delle partenze dalla Tunisia va inquadrato in una dimensione più ampia e la stessa Tunisia è alle prese con gli effetti di una migrazione dai confini sud del proprio territorio. Occorre sicuramente la collaborazione del Governo di Tunisi, che ha tutto l’interesse a tutelare le proprie frontiere meridionali, ma non è utopia pensare a un intervento strutturato: ci sono diversi esempi di attività analoghe messe in campo in altre aree”.
Quali?
“Il primo è il Patto di amicizia siglato dalla stessa Italia nel 2008 con la Libia, che prevedeva il pattugliamento da parte della Guardia di finanza italiana con le autorità locali libiche, oltre a un ingente finanziamento per ricostruire le infrastrutture libiche. I dati statistici mostrano che nel 2009, 2010 e parte del 2011 le partenze si erano pressoché azzerate. Si è trattato di un’attività di pattugliamento congiunto che ha ottenuto successo. Ma ci sono anche due altri due esempi: il pattugliamento in acque somale, con il consenso Governo di Mogadiscio, contro il fenomeno della pirateria. Prevede l’impiego di navi europee, con un mandato europeo in vigore dal 2008, che permette di effettuare attività di intercetto e sequestro dei barchini usati dai pirati, con arresto dei criminali. L’ultimo esempio è anche il più recente con l’accordo, siglato a novembre 2022 tra Francia e Regno Unito, per il contrasto alle partenze di migranti clandestini nel Canale della Manica. Prevede l’interdizione navale davanti alle coste francesi di Calais, ma anche un rafforzamento della polizia a terra e pattugliamento congiunto, con un investimento complessivo di 500 milioni di euro”.
Ora si invoca da più parti una nuova missione Sofia: perché è stata sospesa e cosa non ha funzionato?
“Missione Sofia era basata su 4 livelli di operazione: la raccolta di informazioni di intelligence davanti dalle coste libiche; il contrasto al traffico di esseri umani in alto mare, tra le acque territoriali italiane e quelle libiche; la possibilità di ingresso nelle acque territoriali libiche; l’ipotesi di scendere a terra e distruggere i siti dei trafficanti. Ma l’autorità politica europea non ha mai autorizzato gli ultimi due livelli. Il risultato è stato negativo, soprattutto per l’Italia, di fatto costretta a intervenire nel soccorso in mare, con le navi militari che fungevano da ‘pull factor’, da fattore di spinta per le partenze”.
Proprio di ‘pull factor’ ha parlato anche Giorgia Meloni, ora si auspica un maggior intervento a livello europeo nella gestione della crisi dei migranti. Crede sia la strada giusta?
“Intanto va ricordato che lo stesso Regno Unito, che era ancora parte dell’Ue, lasciò per primo la missione Sofia parlando proprio di ‘pull factor’. Ora la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha presentato un piano in 10 punti che potrebbe essere positivo, ma temo che non sia sufficiente. Per esempio, le ong che operano in mare spesso battono bandiera di un Paese, ma questo non si fa carico, come invece previsto dal Trattato di Dublino, dell’accoglienza e protezione civile per i richiedenti asilo politico che sono tratti a bordo. Io penso che oggi si dovrebbe mettere piede in Tunisia, agire in loco”.