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Iwao Hakamada una vita nel braccio della morte in Giappone: la storia dell'ex pugile assolto dopo 56 anni

Iwao Hakamada assolto dopo aver trascorso 56 anni nel braccio della morte di una prigione giapponese: storica sentenza

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Mirko Vitali

GIORNALISTA

Giornalista esperto di politica e attualità, attento anche ai temi economici e alle dinamiche del mondo dello spettacolo. Dopo due lauree umanistiche e il Master in critica giornalistica, lavora e collabora con diverse testate e realtà editoriali nazionali

L’ex pugile Iwao Hakamada, che ha trascorso gli ultimi 56 anni della sua vita nel braccio della morte di un penitenziario in Giappone, è stato dichiarato innocente nelle scorse ore. Il condannato a morte più longevo del mondo oggi ha 88 anni. Il tribunale distrettuale di Shizuoka ha emesso una sentenza che ha ribaltato quella del 1968 per l’omicidio di una famiglia.

Giappone, Iwao Hakamada lascia il braccio della morte dopo 56 anni

Il caso di Iwao Hakamada è una delle vicende giudiziarie più controverse della storia giapponese. La condannata a morte arrivata nel 1968 fu emessa con prove non chiare: il ritrovamento di alcuni vestiti macchiati di sangue in una vasca di miso e una confessione forzata estrapolata all’ex pugile. Nelle scorse ore il colpo di scena: assoluzione.

Nel 1966 Hakamada lavorava in una ditta che produceva pasta di miso. Fu arrestato e accusato di aver ucciso il datore di lavoro, sua moglie e due dei loro figli. Una strage effettuata con un’arma da taglio nella casa della famiglia uccisa che dimorava nella prefettura di Shizuoka. L’abitazione, dopo gli omicidi, fu data alle fiamme.

Iwao Hakamada e la sorella Hideko

Perché l’ex pugile fu incriminato e i motivi dell’assoluzione

L’ex pugile fu incriminato per omicidio, rapina e incendio doloso. Venne condannato a morte in via definitiva sulla base di una sentenza che spiegava che furono trovate tracce di sangue su cinque indumenti rinvenuti in una vasca di miso, a distanza di 14 mesi dall’omicidio. Tali tracce di sangue corrispondevano ai gruppi sanguigni dei cadaveri e dello stesso Hakamada.

Lo sportivo confessò inizialmente gli omicidi, ma al processo si dichiarò sempre non colpevole. Perché allora, in principio, si prese la responsabilità di quanto accaduto? Perché, a suo dire, fu protagonista di un brutale interrogatorio da parte degli agenti della polizia con cui ebbe a che fare. Altrimenti detto, sostenne che gli fu estrapolata una confessione forzata.

Il giudice del tribunale distrettuale di Shizuoka, nelle scorse ore, ha stabilito che gli indumenti insanguinati usati come prove per condannare Hakamada furono piazzati nel luogo in cui furono trovati molto tempo dopo gli omicidi. La notizia la riferisce la tv pubblica NHK.

“La corte non può accettare il fatto che la macchia di sangue sarebbe rimasta rossastra se fosse stata immersa nel miso per più di un anno. Le macchie di sangue sono state elaborate e nascoste nella vasca dalle autorità inquirenti dopo un considerevole periodo di tempo dall’incidente”, ha spiegato il giudice. “Il signor Hakamada non può essere considerato il criminale”, ha concluso.

Il ruolo della sorella Hideko

Cruciale nell’intera vicenda che ha portato all’assoluzione è stato il ruolo della sorella di Hakamada, Hideko, 91 anni, che non ha mai creduto alla colpevolezza del fratello. “Per moltissimo tempo abbiamo combattuto una battaglia che sembrava infinita”, ha dichiarato prima del verdetto, “ma stavolta credo che la porteremo a una conclusione”.

Il caso è stato commentato anche dall’avvocato Teppei Kasai, responsabile di Human Rights Watch Asia. Secondo il legale, ciò che è avvenuto a Hakamada è “solo uno degli innumerevoli esempi del sistema giapponese di “giustizia degli ostaggi”, che documenta come i sospetti di reato subiscono gravi abusi in custodia preventiva con intimidazioni durante gli interrogatori”.

Il Giappone, assieme ad alcuni stati Usa, è rimasto il solo Paese, tra quelli ritenuti avanzati, democratici e industrializzati, ad applicare la pena di morte.

Fonte foto: ANSA/GETTY

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