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CRONACA NERA

Il duro sfogo di Raffaele Sollecito, vittima con debiti milionari

A 13 anni dal delitto di Perugia, Raffaele Sollecito si dichiara vittima della giustizia, con debiti milionari da saldare a causa dei tanti processi

Di: VirgilioNotizie | Pubblicato:

Sono passati 13 anni dal delitto di Meredith Kercher, avvenuto a Perugia il 1 novembre 2007. Per l’omicidio della studentessa inglese venne condannato con rito abbreviato l’ivoriano Rudy Guede. Il processo, particolarmente complesso, coinvolse l’americana Amanda Knox e l’italiano Raffaele Sollecito. Per quest’ultimo, all’epoca dei fatti appena 23enne, il complesso iter giudiziario ha generato debiti per oltre un milione di euro.  Gli avvocati Giulia Bongiorno e Luca Maori avevano chiesto un risarcimento per ingiusta detenzione, riconosciuta anche dai giudici. Il pagamento tuttavia non è mai stato disposto in quanto lo stesso Raffaele Sollecito, come si legge nelle motivazioni della sentenza della Corte d’Appello di Firenze del 2017, aveva fornito “dichiarazioni contraddittorie o addirittura francamente menzognere” che avevano influito sulle indagini.

“È una situazione assurda. Sono io a dover pagare per un reato che non ho commesso, per un processo che non ho causato”, ha dichiarato Raffaele Sollecito al Giornale. “Dopo tutte le difficoltà che ho avuto, le discriminazioni e i pregiudizi che ho dovuto subire, dopo quello che abbiamo passato io e la mia famiglia, mi aspettavo che lo Stato mi aiutasse a riprendere in mano la mia vita. Invece, sono stato trattato da reietto, un emarginato sociale. Come se l’assoluzione avesse dovuto bastarmi e io non abbia diritto a chiedere di più. Così, come se fosse stato un gioco quello che ho vissuto ma non lo è stato”.

La sentenza della Corte d’Appello di Firenze “è paradossale, fuori dal mondo. Come se fossero colpa mia tutti gli errori processuali. Io avevo 23 anni al tempo, stavo per laurearmi in ingegneria informatica e non avevo mai messo piede in una questura. Cosa ne potevo sapere di quali fossero i meccanismi che avrebbero portato ben 40 inquirenti, con una esperienza consolidata alle spalle, a una deviazione delle indagini? Se lo avessi saputo, quando sono andato a rendere dichiarazioni spontanee come persona informata dei fatti, mi sarei tutelato con un avvocato. Invece non l’ho fatto proprio perché non avevo nulla da nascondere, neanche un callo. Sono stato ingenuo. E ora mi ritrovo a dover pagare una cifra allucinante”.

Ovvero un milione e 200mila euro, di cui circa 630mila agli avvocati che lo hanno assistito, Giulia Bongiorno e Luca Maori. “In parte, 400mila euro, sono stati già saldati. Ma abbiamo dovuto ipotecare i beni immobiliari appartenuti a mia madre, che è morta. È stato atroce privarsi di qualcosa che per me e la mia famiglia aveva un inestimabile valore affettivo. Senza contare che anche mio padre, nonostante sia un medico, ha dovuto indebitarsi perché i soldi non erano mai abbastanza. Ci sono state spese importanti che abbiamo dovuto sostenere, 15 consulenti da pagare e tante altre cose. Ed è assurdo che abbia dovuto farlo in nome di uno Stato che non mi ha mai tutelato”.

Raffaele Sollecito e i suoi legali si sono ora “rivolti alla Corte Europea, e siamo in attesa di risposta. Siamo in causa contro lo Stato per responsabilità civile dei magistrati. Inoltre abbiamo intentato un processo di merito contro i magistrati che mi hanno accusato, perché in tutti quegli anni, mi riferisco a quelli del processo, non hanno minimamente tenuto conto di quelli che erano i fatti. Si sono chiusi in una idea di colpevolezza nei miei confronti che era più per partito preso che fattuale. Hanno seguitato per la loro strada e, talvolta, lo hanno fatto anche con dolo”.

“Sono stati anni tragici per me e la mia famiglia. Dopo la scarcerazione sono finito in depressione”, ha raccontato Raffaele Sollecito al Giornale. “È difficile ritornare alla normalità dopo che sei stato per anni in un ambiente ostile, totalmente estraneo a quella che era stata la tua vita prima del processo. Sapevo che non sarebbe stato facile ma non mi aspettavo tutto questo. Mia sorella ha perso il lavoro, mio padre ha avuto problemi con i suoi colleghi, e io stesso ho dovuto combattere contro i pregiudizi delle persone, soprattutto al lavoro. Sostenevo colloqui di lavoro con multinazionali, mi pagavano la trasferta e tutto quanto ma poi, quando scoprivano che avevo un profilo mediatico complesso, mi rispedivano indietro nel giro di un paio di giorni. Non è bastata una assoluzione per cancellare l’idea che le persone si sono fatte di me”.

L’idea di “un mostro, un freddo calcolatore. Ma io non do la colpa alla gente, che neanche sapeva chi fossi o cosa facessi nella vita. Purtroppo, anche in questo caso, non sono stato supportato da chi avrebbe dovuto farlo. Quando sono cominciati a emergere gli errori nelle indagini, negli Stati Uniti, il Paese di Amanda Knox, hanno iniziato ad alzare la voce, a reclamare giustizia e verità. Dopo l’assoluzione, Amanda è stata accolta, giustamente, come una vittima. È stata supportata e aiutata a rifarsi una vita. Una scelta che io appoggio totalmente dal momento che lei, com me, è stata una vittima ingiusta. Invece, per me così non è stato. Non c’è stato nessuno che abbia quantomeno insinuato il dubbio sulla mia innocenza. In Italia lo Stato se ne è lavato le mani. Come a dire: ‘Ti ho assolto ma adesso sono cavoli tuoi’. E non è così che dovrebbe funzionare”.

“Io ero sotto choc, in uno stato di confusione. Non avrei mai immaginato di ritrovarmi in una situazione del genere. Il fatto che non mi disperassi o versassi un mare di lacrime non vuol dire che la tragedia mi era indifferente. Anzi, ero molto dispiaciuto e mi sentivo smarrito. Eppure, l’impianto accusatorio si basò sostanzialmente su quei comportamenti che avevamo io e Amanda Knox nelle ore e nei giorni dopo. Non c’erano evidenze fattuali che comprovassero un mio coinvolgimento nella vicenda. Si può condannare all’ergastolo una persona sulla base di un sensazionalismo inconsistente o sulla base di ricostruzioni mediatiche?”, si è domandato Raffaele Sollecito. “Io non credo sia corretto. Eppure con me i giudici hanno fatto questo: si sono chiusi nelle loro ipotesi di colpevolezza e hanno continuato per quella strada. E neanche di fronte a errori evidenti sono tornati sui loro passi o si sono posti il dubbio sul corretto svolgimento delle indagini. Ma sia io che Amanda siamo state solo due vittime”.

Stare 6 mesi in isolamento è stata “un’esperienza fortissima e drammatica, non ci sono altre parole per descriverla. Ti mettono a marcire in un cella dicendoti che da quel momento la tua vita non avrà più un senso, che trascorrerai il resto dei tuoi giorni in uno stanzino. In un attimo, vengono cancellati sogni, ambizioni e aspettative. Per loro tu sei colpevole, hai tolto il futuro a una persona e quindi non meriti di averne uno”.

“Ci sono stati vari momenti in cui abbiamo fatto un passo avanti. Penso a quando è stata letta la perizia dei giudici di appello in cui era descritto tutto quello che era stato fatto in termini di analisi dei reperti dimostrando la mia estraneità alla vicenda, lì ho provato un grande sollievo“, ha raccontato Raffaele Sollecito. “Un altro momento importante è stata la scarcerazione e poi, ovviamente, l’assoluzione definitiva. Ma la parola fine, in realtà, non c’è mai stata per tutto quello che è accaduto dopo”.

Oggi 36enne, Raffaele Sollecito è riuscito a rifarsi una vita, “ma ho dovuto farlo da solo, con le mie uniche forze. Certo, non mi aspettavo che poi sarebbe stato tutto gioioso e bello, ma neanche che avrei dovuto riabilitarmi. Lo Stato è stato totalmente assente. Nessuno mi ha dato una sola chance nonostante io non avessi fatto nulla per meritare tutto quel dolore. Mi fa ancora male parlare di questa storia, tutte le volte è una tortura. Ma mi costringo a farlo perché ci sono tante persone che come me hanno subito un’ingiustizia. E magari posso essere uno sprone per qualcuno che non ha la forza di reagire”.

“Ho scritto due libri, uno pubblicato in Italia e uno negli Stati Uniti. Ho vari progetti in cantiere legati al settore in cui sono competente, ovvero, la tecnologia informatica. E poi un sogno che, se avessi avuto la possibilità economica, avrei già realizzato. Mi piacerebbe creare un’associazione per aiutare i detenuti a un percorso di riabilitazione sociale. Non si possono condannare le persone due volte. Tutti meritano una seconda chance”, ha concluso nell’intervista al Giornale.

Fonte foto: Ansa

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