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Afghanistan, vent’anni di guerra: cosa è successo dopo il 2001

Dopo venti anni di distruzione ed economia al collasso, nel 2021 le truppe americane hanno lasciato l’Afghanistan e sono tornati i Talebani

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Stefania Bernardini

GIORNALISTA

Giornalista professionista dal 2012, ha collaborato con le principali testate nazionali. Si occupa soprattutto di cronaca, politica, economia e spettacolo.

La guerra in Afghanistan è iniziata il 7 ottobre del 2001 come risposta degli Stati Uniti agli attacchi terroristici dell’11 settembre dello stesso anno. Tutto ha inizio il 9 settembre 2001, quando il leader della Resistenza afghana anti-talebani, Ahmad Shah Massoud, viene ucciso in un attentato suicida da parte di due arabi travestiti da giornalisti francesi. Due giorni dopo, quattro aerei di linea di United Airlines e American Airlines vengono dirottati da 19 terroristi di Al Qaeda, due dei quali si schiantano contro le Torri Nord e Sud del World Trade Center, a New York. Circa una settimana dopo, l’allora presidente degli Usa, George W. Bush chiede al governo dei talebani di consegnare Osama bin Laden e chiudere i campi di addestramento di Al Qaeda nel paese. Il 21 settembre i talebani rifiutano l’ultimatum per mancanza di prove contro lo sceicco saudita e così il governo della Casa Bianca avvia l’operazione Enduring Freedom.

L’operazione Enduring Freedom

Il 7 ottobre del 2001 le forze armate statunitensi e britanniche iniziano un bombardamento aereo sull’Afghanistan, con l’obiettivo di colpire le forze talebane e di Al Qaeda. Intanto, sul terreno, va avanti l’offensiva dell’Alleanza del Nord. Poco più di un mese dopo, Kabul, la capitale del Paese, cade e i talebani si ritirano nella roccaforte di Kandahar, che cadrà il 9 dicembre, segnando la fine dell’Emirato islamico.

Il 5 dicembre, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite autorizza la creazione dell’International Security Assistance Force per mantenere la sicurezza in Afghanistan e assistere il governo di Kabul. Dell’Isaf farà parte anche un contingente italiano, schierato prima a Kabul e poi a Herat. A metà dicembre i combattenti di Al Qaeda e Osama bin Laden fuggono nelle regioni tribali del Pakistan a sud ed est. Alla conferenza internazionale sull’Afghanistan, in Germania il 20 dicembre, Hamid Karzai è scelto come capo dell’Amministrazione provvisoria, verrà poi nominato presidente a luglio da una grande assemblea d’emergenza.

La fine della prima fase del conflitto

Nel 2002 le forze statunitensi stabiliscono una sede principale nella base aerea di Bagram, poco a nord di Kabul, e molti avamposti nelle province orientali per catturare talebani e fuggitivi di al-Qāʿida. Il numero di truppe della coalizione a guida statunitense operanti nel paese cresce fino a più di 10mila.

Nel frattempo i talebani si riorganizzano nelle montagne di Shahi-Kot nella provincia di Paktia, ma l’intelligence Usa lo nota e organizza una massiccia offensiva. Si dà avvio all’operazione Anaconda con una battaglia tra forze statunitensi e afghane contro i ribelli. I talebani si spostano in un territorio in Pakistan al confine e da lì continuano a lanciare attacchi in Afghanistan. A maggio del 2003, il segretario della Difesa Usa Donald Rumsfeld annuncia che la prima fase del conflitto era terminata, “i combattimenti principali sono conclusi” e che da allora sarebbe cominciata la ricostruzione del Paese. L’8 agosto la Nato assume la responsabilità della missione Isaf e si avvia il piano di ricostruzione dell’Afghanistan.

Le elezioni e l’anatema del Mullah Omar

A ottobre 2004 si tengono le elezioni nell’Afghanistan liberato dai talebani e Hamid Karzai viene democraticamente eletto presidente della Repubblica islamica dell’Afghanistan. Poco dopo, sul finire dell’anno, il Mullah Omar, il leader dei talebani, lancia l’anatema contro gli Stati Uniti e “i suoi fantocci”, ovvero il governo di transizione afghano, annunciando l’intenzione di “riprendersi la sovranità del Paese”. Gli attacchi dei guerriglieri diventano sempre più frequenti, così come i malumori per un conflitto che si pensava vinto. Inizia un’opposizione interna, negli Stati Uniti, che fa nascere nel Paese un desiderio di ritiro delle truppe dall’Afghanistan.

L’Isaf della Nato in Afghanistan

Dal 2006 la forza internazionale di assistenza per la sicurezza della NATO inizia a rimpiazzare truppe statunitensi nell’Afghanistan meridionale con l’obiettivo di organizzare squadre di ricostruzione provinciale. Figure talebane locali si oppongono e promettono di resistere.

Le operazioni NATO sono governate da comandanti britannici, canadesi e olandesi che danno avvio alle operazioni Avanzata Montana, Medusa, Furia Montana e Falcon Summit per liberare le aree dai Talebani. Nonostante il successo in vittorie tattiche delle Nazioni Unite, i ribelli non vengono completamente sconfitti e si continua a combattere fino al 2007 con l’Operazione Achille, alla quale partecipano soldati statunitensi, britannici, olandesi e canadesi. Il 13 maggio 2007 viene annunciata la morte del mullah Dadullah, uno dei più importanti comandanti talebani. Nel dicembre del 2007 i talebani, dopo alcuni giorni di assedio, sono costretti ad abbandonare la città di Musa Qala, fino ad allora la città più importante controllata dai talebani.

Il passaggio da Bush e Obama e l’uccisione di Bin Laden

Nei primi mesi del 2008 le truppe americane impegnate in Afghanistan aumentano dell’80%. A novembre dello stesso anno viene eletto alla Casa Bianca Barack Obama con la promessa di portare a termine un’occupazione che durava ormai da 7 anni e che aveva cominciato a essere mal vista a Washington.

A fine 2009 Obama invia altri 33mila soldati statunitensi in Afghanistan. In totale le truppe internazionali sono 150mila. Il proposito di far rientrare i soldati Usa, obiettivo del presidente e del suo vice Joe Biden, viene continuamente posticipato. Il 1 maggio del 2011, in un raid ad Abbottabad, in Pakistan, truppe speciali Usa uccidono Osama bin Laden. Poco più di un mese dopo viene annunciato il primo ritiro di 10mila soldati americani. A fine anno si avvia anche il ritiro delle truppe Nato.

Il trasferimento della responsabilità della sicurezza alle forze afghane

Nel 2013 la Nato passa la gestione della sicurezza alle forze militare afghane. L’esercito americano si occupa dell’addestramento, con un investimento di oltre 80 miliardi di dollari. Il graduale disimpegno degli alleati e la cronica fragilità delle istituzioni afghane, porta alla rinascita della guerriglia talebana, che raggiunge il culmine nel 2015.

Obama abbandona il proposito di ritirare le forze armate entro la fine della sua presidenza e mantiene sul territorio 5.500 unità. Nel 2016, Donald Trump viene eletto alla White House e, anche lui come il suo predecessore, fa marcia indietro sul proposito della campagna elettorale di far rientrare in patria i soldati impegnati in Afghanistan. Intanto alla presidenza del Paese è stato eletto Ashraf Ghani.

La trattativa di pace

A fine 2017 ricomincia il ritiro delle truppe Usa dall’Afghanistan e a febbraio 2019 il governo americano comincia in Qatar i negoziati con i talebani, stilando la bozza di un accordo di pace che prevede il ritiro delle forze americane e internazionali dal Paese entro maggio 2021 e l’obbligo per gli integralisti islamici di impedire che altri gruppi jihadisti operassero nel Paese.

L’accordo viene firmato il 29 febbraio del 2020 a Doha senza il governo afghano che critica l’intesa. Nel frattempo alla Casa Bianca c’è un altro cambio di presidenza e arriva Joe Biden che ad aprile 2021 annuncia il ritiro definitivo entro l’11 settembre. A luglio gli Stati Uniti lasciano la base afghana di Baghram, i talebani riprendono i combattimenti e riconquistano Kabul il 15 agosto del 2021. Pochi giorni dopo, il 19 agosto gli Studenti Coranici proclamano la restaurazione dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan.

Nel mezzo di questi venti anni si è ritrovato un Paese che nel 2001 scontava un forte isolamento internazionale e attraversava una gravissima siccità, preliminare alla carestia, e che ora si trova a fare i conti con crisi umanitaria, economia in caduta libera e spinta migratoria interna ed esterna. Secondo i dati delle agenzie delle Nazioni Unite, 18,5 milioni di abitanti, circa metà della popolazione, hanno bisogno di assistenza umanitaria. Sette milioni di persone non ha alcun accesso ai servizi sanitari; 3,1 milioni di bambini sono a rischio di malnutrizione acuta.

Fonte foto: Ansa

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