Cop28 trova il compromesso sui combustibili fossili, basterà? Il bilancio del climatologo Massimiliano Fazzini
Il climatologo Fazzini dopo la Cop28 e la decisione sui combustibili fossili: “Agire senza disperdere risorse, elettrico sorpassato dall’idrogeno”
“Il nostro pianeta è a pochi minuti dalla mezzanotte per quanto riguarda il limite degli 1,5 gradi. E l’orologio continua a fare tic tac“. Le parole del segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, non hanno lasciato dubbi sull’urgenza di agire e sono arrivate in uno dei momenti più critici, alla vigilia delle conclusioni della Cop28 sul clima negli Emirati Arabi Uniti. Un vertice sul quale ha pesato la spaccatura tra l’Europa (e gli Stati Uniti) da un lato e i Paesi dell’Opec (che raggruppano i produttori di petrolio) dall’altra. Al centro, la necessità e l’urgenza di tagliare le produzioni di combustibili fossili, a cui si sono opposti proprio coloro che dalla produzione traggono maggiore profitto. Alla fine è stato trovato un compromesso: la parola phase-out, ossia l’eliminazione dei combustibili fossili, è sparita dai documenti ufficiali, lasciando il posto a transition away, quindi una fuoriuscita. Sul tema, ai microfoni di Virglio Notizie, è intervenuto Massimiliano Fazzini, responsabile del gruppo sui cambiamenti climatici della Società italiana di geologia ambientale (Sigea) e docente all’Università di Chieti.
Phase-out, la parola sparita dai documenti ufficiali
Il segretario dell’Onu, Antonio Guterres, aveva esortato a “dare il massimo per negoziare in buona fede e raccogliere la sfida”, confidando nell’eliminazione dei combustibili fossili da parte della comunità internazionale.
Dalla bozza finale della Cop28, però, è sparita la parola phaseout, il tanto invocato “taglio” ai fossili combustibili.
Al suo posto è apparsa transition-away, una fuoriuscita da gas, petrolio e carbone ma con una formula più soft.
Va sottolineato comunque che è la prima volta, in 30 anni di negoziati, che si mette nero su bianco l’inizio della fine dei combustibili fossili, principali responsabili della crisi climatica.
L’intervista a Massimiliano Fazzini
Secondo il climatologo Massimiliano Fazzini “il principale problema di queste trattative rischia di essere proprio l’Onu, che prima ha accettato le lusinghe economiche dei Paesi produttori di petrolio, come gli Emirati Arabi Uniti, poi ha cercato di imporre la propria idea: è stato un autogol“.
E ancora: “Non ci si poteva aspettare una risposta molto diversa dai Paesi dell’Opec, temo ci sia stata un po’ di ipocrisia nel dichiararsi sorpresi”.
Il Segretario generale dell’ONU ha più volte ribadito l’obiettivo di limitare l’aumento delle temperature globali a 1,5 gradi rispetto all’epoca preindustriale. Obiettivo raggiungibile e necessario?
“Porsi degli obiettivi è corretto, ma va ricordato che a oggi non è possibile sapere con esattezza di quanto sia aumentata la temperatura rispetto a 150 anni fa. Il motivo è semplice: delle 5.500 stazioni meteo che dovrebbero essere utilizzate per il calcolo, meno del 20% è omogenea e adatta a studi seri. Di fatto rimediamo con le simulazioni, che però non forniscono certezze: il dato di 1,5 gradi potrebbe essere in realtà uno 0,8 o potrebbe arrivare anche all’1,6 o 1,7. Se così fosse il famigerato punto di non ritorno lo avremmo già superato. Occorre fare tutto il possibile e subito”.
Intanto il testo uscito dalla Conferenza non prevede più l’uscita (phaseout) da carbone, petrolio e gas, ma solo la fuoriuscita (transition away). Non si tratta solo di piccole differenze nella terminologia, ma di impegni differenti: perché è così difficile confermarli?
“Intanto mi viene da considerare che un testo di 20 pagine per un problema così importante è forse troppo poco. Poi, entrando nel merito, gli impegni conclusivi sono stati di molto mitigati, come se non si volesse negarli, ma sicuramente diluirne i tempi di attuazione. Credo che uno dei punti più importanti, comunque, rimanga quello relativo all’accelerazione della riduzione delle emissioni da percorsi stradali: si esorta a implementare il trasporto su rotaia, come noi climatologi ripetiamo da 20 anni. Una parte dell’Europa lo ha fatto e lo fa, ma anche la Cina stessa, grazie all’alta velocità che utilizza sia per le persone che per le merci”.
Qualcuno sostiene che questa Conferenza sul clima sia un fallimento. Eppure Guterres ha più volte ammonito che questa è un’opzione che il mondo non si può permettere: perché?
“Non ce lo possiamo permettere, ma purtroppo ancora una volta dalla Conferenza esce un documento molto fumoso e in ritardo di anni. Stiamo ancora lavorando in larga parte alle banche dati, che avremmo dovuto realizzare all’inizio degli anni 2000. Siamo in estremo ritardo. Un’altra criticità è la resistenza da parte dei Paesi del blocco Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, ndr) e dei produttori di petrolio, mentre Stati Uniti e Cina, le due vere potenze mondiali, hanno assunto un atteggiamento neutrale, non si sono espresse. Il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, ha parlato di compromesso, che vuol dire tutto e nulla. Purtroppo si è vista la scarsa incisività dell’Europa, che ha tentato di fare la voce grossa, secondo me senza grandi risultati”.
A proposito di Cina, tra i sette punti del testo finale, c’è la riduzione di combustibili fossili, “in modo giusto, ordinato ed equo così da raggiungere lo zero netto entro, prima o intorno al 2050, in linea con la scienza”. Ma è un traguardo raggiungibile per l’Occidente? Come si raggiunge senza l’adesione di realtà come la Cina?
“Attenzione, ancora una volta è un problema di numeri. Noi in Italia emettiamo pro capite 16 volte quello che emette la Cina, che è al 37° posto tra i Paesi con le maggiori emissioni di gas serra pro capite, appunto. La differenza è che loro sono 1 miliardo e mezzo, noi 60 milioni. Ora non possiamo vietare loro di fare ciò che abbiamo fatto noi a lungo. Il vero problema sono l’Europa, come gli Usa e in parte anche l’India. Anche se quest’ultima paradossalmente, pur essendo in grande espansione economica e demografica, sta attuando una politica di emissioni molto ridotte”.
In che modo l’India sta agendo in maniera oculata?
“Da un lato grazie alle condizioni climatiche favorevoli delle quali godono: si prestano a far crescere tutte le possibilità di produzione di energie rinnovabili. L’India, infatti, è uno dei Paesi più ventosi al mondo, grazie ai monsoni invernali ed estivi. In più godono di un importante soleggiamento per tutto l’anno, per la posizione geografica che occupano. Infine, possono potenzialmente sfruttare l’energia che deriva dalle onde e dall’Oceano. Io credo che entro 5 anni l’India potrà diventare la prima potenza tecnologica in questo ambito: già oggi il colosso tecnologico di Begalore è superiore a quello della Silicon Valley”.
Quanto alle rinnovabili, l’elettrico presenta alcuni limiti come le difficoltà di smaltimento delle batterie e la necessità di corrente elettrica per far funzionare ad esempio le auto. Saranno comunque il futuro o si dovrà puntare su altre fonti?
“Temo che la coperta sia corta: vogliamo velocizzare il processo di produzione di tecnologie rinnovabili, ma dobbiamo aumentare il consumo di quelle attuali. Per questo penso che l’idrogeno sia il vero futuro. Una casa automobilistica come Porsche sta già abbandonando l’elettrico per idrogeno. Bisogna crederci, perché è l’altra soluzione alternativa ai fossili, sicuramente perseguibile. Il nodo è: dove investire? Io ritengo che occorra non disperdere le risorse, concentrandole su poche potenziali tecnologie vincenti”.