Covid, perché alcuni si ammalano gravemente e altri no: gli studi
Alcuni studi hanno cercato di fare chiarezza sui motivi per i quali il Covid può avere a volte un esito grave e altre volte no
È ormai noto che non tutte le forme di Covid-19 abbiano le stesse conseguenze. C’è chi sviluppa infatti una sintomatologia lieve e chi una più acuta, che talvolta sfocia in un decesso. Diversi studi hanno provato a chiarire perché il decorso della malattia sia così diverso da individuo a individuo, e sebbene i misteri del Covid non siano ancora stati del tutto svelati, è possibile, ormai a un anno e mezzo dallo scoppio della pandemia, farsi un’idea più precisa sulle cause.
Covid, il ruolo degli interferoni nelle forme gravi o lievi
Due team formati da scienziati italiani e statunitensi hanno unito le forze per cercare di fare chiarezza sul perché alcune persone sviluppano una forma grave del Covid e altre invece manifestano solo una sintomatologia lieve. I ricercatori del Laboratorio di microbiologia e virologia dell’Università Vita-Salute San Raffaele, congiuntamente alla divisione di immunologia del Boston Children’s Hospital dell’Harvard Medical School, hanno pubblicato uno studio sulla rivista Cell che approfondisce questo tema di grande interesse.
Dallo studio, a firma del prof. Nicasio Mancini et al., è emerso che le conseguenze della malattia potrebbero dipendere da molecole chiamate interferoni: come riporta l’Adnkronos, bassi livelli di interferoni nelle prime vie aeree potrebbero rendere difficoltoso il controllo del virus ed esporre quindi a conseguenze più gravi.
Al contrario, alti livelli di risposta antivirale nelle vie aeree superiori possono favorire una miglior risposta alla presenza del virus, esponendo il soggetto a un rischio più basso di subire complicanze gravi.
I team di ricercatori hanno confrontato i casi acuti e i casi lievi, evidenziando come gli interferoni possano rappresentare un elemento determinante.
Nicasio Mancini, direttore della Scuola di specializzazione in Microbiologia e Virologia dell’Università Vita-Salute San Raffaele, ha spiegato: “Abbiamo rilevato che alti livelli di interferone di tipo III e, in misura minore, di tipo I, caratterizzano le vie aeree superiori dei pazienti a basso rischio, con forme meno gravi e alta carica virale”.
“In altre parole – ha precisato – la presenza del virus stimola una risposta che funge non solo da campanello d’allarme per risposte immunitarie successive più raffinate, ma anche per un efficace contenimento del virus a questo livello”.
Al contrario, “una riposta meno efficace, come osservato nei soggetti più anziani che abbiamo studiato, può portare all’interessamento più massiccio delle basse vie respiratorie, dove gli interferoni, sebbene presenti, non sono più in grado di controllare l’infezione e la produzione massiccia di altri mediatori infiammatori”.
Mancini ha aggiunto che le osservazioni “evidenziano ulteriormente come gli interferoni assumano ruoli opposti in sedi anatomiche diverse lungo il tratto respiratorio: una produzione efficiente nelle vie aeree superiori può portare a una più rapida eliminazione del virus e a limitarne la diffusione virale alle vie inferiori”.
“Tuttavia, quando il virus sfugge al controllo immunitario nelle vie superiori – ha messo in guardia l’esperto – l’abbondante produzione di interferoni nei polmoni, non solo non è in grado di limitare più in modo efficace il virus, ma contribuisce alla tempesta citochinica e al danno tissutale tipico dei pazienti con Covid-19 grave”.
Lo studio si è posto l’obiettivo di chiarire il ruolo degli interferoni, soprattutto quelli di tipo III, in quanto precedenti osservazioni avevano portato a conclusioni discordanti. Come hanno chiarito gli scienziati, se da un lato i pazienti affetti da forme gravi mostrano risposte interferoniche basse, dall’altro un’eccessiva produzione di interferoni è stata osservata anche in pazienti il cui corso della malattia ha avuto esiti infausti.
Per questo, lo studio pubblicato su Cell ha definito il ruolo degli interferoni nella progressione del Covid, sulla base di campioni prelevati da alte e basse vie respiratorie con esiti della malattia differenti.
Covid, gli studi sugli autoanticorpi
Altri studi pubblicati su Science Immunology e riportati dall’Ansa hanno inoltre evidenziato che il 20% dei casi fatali di Covid-19 è dovuto alla presenza di anticorpi ‘impazziti’ (autoanticorpi) compromettono la risposta immunitaria attaccando specifiche proteine essenziali contro il virus.
Questi autoanticorpi aumentano di prevalenza dopo i 60 anni e potrebbero permettere di individuare i pazienti a rischio da trattare con anticorpi monoclonali. Gli studi sono stati realizzati da un consorzio internazionale coordinato dal National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID), dalla Rockefeller University di New York, e dall’Università di Parigi.
Parallelamente, anche l’Università di Milano-Bicocca, con l’ASST di Monza, ha fornito un archivio elettronico di dati raccolti su pazienti Covid ricoverati all’ospedale San Gerardo di Monza. I professori Paolo Bonfanti e Andrea Biondi hanno spiegato all’Ansa che “questi studi sono la prosecuzione di un progetto di ricerca internazionale iniziato fin dai primi mesi della pandemia e volto a studiare le cause alla base dell’estrema multiformità della malattia, che può manifestarsi con uno spettro che varia dall’infezione asintomatica alla morte rapida“.
“Da tempo le ricerche si sono concentrate sulle cause genetiche di tali diversità – hanno precisato gli esperti – e in particolare sul ruolo di alcune proteine prodotte dalle cellule del sistema immunitario, come gli interferoni, che condizionano la risposta favorevole a Covid-19”.
Il ruolo degli autoanticorpi diretti contro gli interferoni di tipo I potrebbe portare all’implementazione di test di screening con l’obiettivo di individuare i soggetti a rischio, su cui orientare maggiori attenzioni cliniche o favorire la vaccinazione.