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Coronavirus, qual è la storia della pandemia: la ricostruzione

Gli studiosi hanno isolato tre varianti del virus: in Italia è presente principalmente quella di tipo C

Di: VirgilioNotizie | Pubblicato:

Il “paziente zero” della pandemia di Covid-19, ovvero il primo caso di coronavirus, è stato contagiato tra la metà di settembre e l’inizio di dicembre del 2019. I ricercatori dell’Università di Cambridge, in uno studio pubblicato su Pnas e riportato da Adnkronos, hanno ricostruito la storia dell’epidemia con l’identificazione di tre diverse varianti genetiche del virus: A, B e C. Proprio quest’ultima variante è presente in Europa, Italia compresa.

Coronavirus, come è arrivato in Italia

Le tecniche usate per la ricostruzione sono le stesse solitamente usate per mappare gli spostamenti delle popolazioni preistoriche attraverso il Dna, ha spiegato Peter Forster.

Confrontando i primi 160 genomi virali completi sequenziali nel mondo dal 24 dicembre al 4 marzo, il risultato è proprio che “la prima infezione umana si sia verificata tra la metà di settembre e l’inizio di dicembre”, ha aggiunto Forster.

Da noi il coronavirus, a detta degli studiosi, è giunto “attraverso la prima infezione documentata in Germania il 27 gennaio” ma “un’altra prima via di infezione italiana sembra correlata a un ‘cluster’ virale di Singapore”.

Coronavirus, il contagio proviene da tre varianti

La variante A, per i ricercatori, è quella che ha dato inizio all’epidemia, “correlata al virus trovato sia nei pipistrelli che nei pangolini“. La B deriva dalla A, mentre la C è “figlia” dalla B.

Mentre la variante A era presente a Wuhan, non era quella predominante. Infatti, nella città focolaio dell’epidemia di Covid-19 circolava prevalentemente la B.

La variante C, invece, è quella più diffusa in Europa e riscontrata nei primi pazienti diagnosticati in Francia, Italia, Svezia e Inghilterra. Anche se sembra assente in Cina, è stata osservata anche a Singapore, Hong Kong e Corea del Sud.

Gli scienziati hanno ora intenzione di utilizzare la classificazione dei genomi per aiutare a prevedere i futuri “hot spot” di trasmissione del virus.

Secondo le parole di Forster, infatti, “l’esame della rete filogenetica potrebbe contribuire a identificare fonti di infezione non documentate da mettere in quarantena per contenere un ulteriore propagarsi della malattia in tutto il mondo”.

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