Coronavirus, sperimentazione Clorochina. Parla Savarino (Iss)
Intervista ad Andrea Savarino, ricercatore dell'Istituto Superiore di Sanità
L’emergenza coronavirus è ancora altissima. L’attenzione si sta spostando sempre di più sui possibili farmaci e sulla speranza di avere presto un vaccino. Noi di VirgilioNotizie abbiamo intervistato Andrea Savarino, ricercatore dell’Istituto Superiore di Sanità, il primo che nel 2003 lanciò l’idea di usare la Clorochina contro il coronavirus della Sars.
Ha destato molto interesse la dichiarazione di qualche giorno fa del virologo francese Didier Raoult, che durante un’intervista ha annunciato di aver curato tre quarti dei suoi pazienti affetti da Covid-19 attraverso l’utilizzo di Clorochina. Il primo ad aver parlato di questo farmaco è stato proprio lei, nel 2003, in merito alla cura del coronavirus della Sars. Le chiederei per cominciare cos’è la Clorochina?
“A livello medico la Clorochina è un farmaco che appartiene alla classe delle Chinoline e ha la capacità di catturare dei protoni, aumentando il ph dell’ambiente. Molti virus e in particolare quello del coronavirus hanno bisogno di agganciarsi alla cellula attraverso un recettore, che è una proteina localizzata di solito sulla superficie della cellula. Una volta che il virus si è agganciato alla proteina, viene internalizzato e si forma una vescicola: è all’interno di questa vescicola che il virus prende a infettare la cellula. Questa vescicola diminuisce il suo ph diventando acida attraverso un meccanismo di pompe protoniche. Qui entra in gioco la Clorochina, che ha la capacità di accumularsi dentro queste vescicole, impedendo la diminuzione del ph e di conseguenza l’infezione del virus”.
Vede una possibile applicazione della Clorochina anche nella cura del Covid-19?
“Assolutamente sì, il coronavirus e la Sars hanno caratteristiche molto simili, sia come mortalità, sia da un punto di vista del virus stesso, in quanto hanno quella che scientificamente viene definita una omologia di sequenza intorno all’80%”.
La Clorochina è un principio inserito tra le terapie benefiche nella cura dell’artrite reumatoide. In questi giorni si sta parlando molto anche di un altro farmaco in via di sperimentazione – il Tocilizumab – utilizzato fino ad oggi sempre nella cura dell’artrite reumatoide. Come mai ci si sta concentrando proprio su questa categoria di farmaci che curano una patologia apparentemente così distante dal coronavirus?
“La Clorochina impedisce che vengano prodotte delle molecole infiammatorie che si chiamano Citochine, che richiamano i mediatori dell’infiammazioni nel luogo dell’infezione. Una parte della patologia di questo virus è dovuta non tanto al danno diretto che il virus produce all’alveolo polmonare, ma al richiamare cellule del sistema immunitario che poi rilasciano dei mediatori dell’infiammazione che producono un danno: è quella che viene definita polmonite interstiziale. Il Tocilizumab condivide – in parte – con la Clorochina il meccanismo immunologico e non ha però un effetto antivirale diretto, a differenza della Clorochina”.
È notizia delle ultime ore che l’AIFA ha dato il nulla osta all’utilizzo di Lopinavir e Ritonavir, ovvero antiretrovirali utilizzati nel trattamento dell’HIV. Lei che ha dedicato la sua vita professionale alla ricerca sull’HIV come vede questa apertura verso l’utilizzo degli antiretrovirali nella cura di Codiv-19?
“Questi farmaci non hanno un effetto potentissimo contro il Covid-19, perché sono studiati appositamente per l’HIV. Ad ogni modo, già al tempo della Sars si notò che questi due farmaci avevano molecole flessibili capaci di ripiegarsi su se stesse e rimodellarsi in modo tale da inibire il centro attivo del coronavirus della Sars”.
Oltre alla sperimentazione sui farmaci, vi è sempre la speranza di poter vedere un vaccino, anche se con un orizzonte temporale un po’ più ampio. Quando potrebbe presumibilmente arrivare secondo lei?
“Basandomi su quella che è la mia esperienza, non possiamo spingerci su alcun tipo di previsione. Diciamo che quasi tutte le previsioni che vengono fatte sulla disponibilità del vaccino non hanno vere e proprie basi scientifiche. È molto difficile creare un vaccino universale contro questi virus, anche perché hanno capacità di mutare, come l’HIV”.
Quali sono allora le speranze più realistiche che la scienza possa darci in questo momento?
“Quello che io auspico è che si mettano a punto a breve delle combinazioni farmacologiche che possano fungere come la cosiddetta PRET per l’HIV. L’HIV ha avuto un enorme calo di contagi in molte aree in cui è stata utilizzata questa profilassi su alcune categorie a rischio. All’inizio sembrava una follia, poi si è visto che questa strategia effettivamente funziona”.
I dati che abbiamo a disposizione fino ad oggi sembrano raccontare che le donne e alcune etnie siano meno colpiti da Codiv-19. È davvero così?
“I dati che abbiamo a disposizione fino a oggi sono ancora pochi per trarre conclusioni, ma ci sono dei trend abbastanza convincenti che mostrano come effettivamente come alcune etnie esprimano una maggior quantità del recettore del Coronavirus che si chiama ACE2”.
Ragionando sempre sui dati che abbiamo in mano fino ad oggi, quale idea si è fatto della situazione in Lombardia?
“Basandomi sui dati che ho visto, purtroppo l’epidemia ha preso tutti alla sprovvista e vi è stata quindi una grave saturazione delle strutture ospedaliere. Nonostante le linee guida, non esistono ancora dei dati su quanto i farmaci sperimentali vengano somministrati ai pazienti e soprattutto a che percentuali di pazienti. Per questo stiamo cercando con alcuni colleghi dell’Emilia Romagna di creare una piattaforma online che prevede un questionario compilato dagli stessi medici curanti che potrà forse darci una risposta su questo”.
Qualcosa in più poteva essere fatto?
“L’errore che secondo me è stato fatto in Italia è quello di iniziare a somministrare troppo tardi i farmaci antivirali, quando i pazienti presentavano già sintomi importanti. Come ci insegna l’esperienza di HIV, i farmaci devono essere dati subito nel momento della diagnosi. Questo impedisce che vi sia una progressione della malattia verso una fase più grave in cui la carica virale diventa più alta e inizia a esserci una compromissione del sistema immunitario”.
E quanto tempo abbiamo prima che subentri questa compromissione nel caso del Covid-19?
“Una settimana circa, ma è difficile valutarlo senza delle statistiche precise. Di sicuro qualche giorno di tempo, massimo una settimana, ce l’abbiamo”.
Perché i dati sui morti in Italia sono così fuori scala rispetto ad altri Paesi europei come la Germania?
“Come medico posso dire che mi sembra non vi sia una rendicontazione omogena nelle morti da coronavirus a livello mondiale, alcuni paesi ad esempio non riportano come morti da coronavirus quelle pazienti che avevano altre patologie importanti, e secondo me è un errore”.