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Un anno di guerra Israele - Hamas, cos'è cambiato dal 7 ottobre e cosa può succedere a Gaza e in Medio Oriente

7 ottobre 2023-7 ottobre 2024: un anno di guerra tra Israele e Hamas, con il Medio Oriente diventato una polveriera. Cos'è cambiato in 365 giorni e cosa può succedere

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Il primo anniversario della guerra tra Israele e Hamas è stato anticipato da giorni di altissima tensione. Ormai il conflitto è allargato: non solo nel territorio di Gaza, colpito dalla reazione delle forze di Tel Aviv già all’indomani dell’attentato del 7 ottobre 2023, ma anche in Cisgiordania e soprattutto in Libano, al confine con il nord di Israele e a Beirut. Senza contare i funerali del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, che si sono tenuti il 4 ottobre 2024. In questo quadro di tensione in Medio Oriente si è allontanata l’ipotesi di una pace nel breve periodo. Cos’è successo nell’ultimo anno e quali sono gli scenari possibili: l’intervista a Maurizio Geri, ricercatore presso la George Mason University a Washington, già analista per la NATO negli Usa e in Europa, EU Marie Curie Postdoc Fellow 2024-2026 con Ca’ Foscari.

Il rischio di allargamento dello scontro

Il timore maggiore, che si è cercato di scongiurare fino all’ultimo, era l’allargamento del conflitto sia al Libano sia all’Iran, dove Israele ha compiuto un attacco, nei mesi scorsi, in cui è morto uno dei leader di Hamas, Ismail Haniyeh, che si trovava a Teheran.

A preoccupare ci sono anche gli Houthi dello Yemen, che di recente e a loro volta hanno colpito Israele con il lancio di un missile partito a 2 mila km da Tel Aviv e diretto proprio alla capitale israeliana. Un attacco che è seguito a una prima operazione in cui sarebbe stato usato un missile ipersonico e che si aggiunge alle operazioni contro le navi battenti bandiera israeliana, americana e, in genere, europea.

razzi israele gaza hamasFonte foto: ANSA
Un veicolo in fiamme, colpito da un missile lanciato da Gaza sulla città israeliana di Ashkelon, il 7 ottobre 2023

A quando uno Stato palestinese

Resta il nodo della costituzione di uno Stato palestinese.

A oggi non c’è ancora un riconoscimento internazionale unanime: il 28 maggio scorso lo hanno formalizzato Spagna, Norvegia e Irlanda, seguite dalla Slovenia.

A livello globale il 70% dei componenti delle Nazioni Unite ha riconosciuto la Palestina: c’è anche l’Italia, insieme – tra le altre – a Francia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti.

Difficile, però, arrivare alla condizione di due popoli, due Stati, come dimostrano gli ultimi mesi.

L’intervista a Maurizio Geri

Lo scontro tra Israele e Hamas è proseguito senza sosta, per un anno, dopo l’attacco terroristico del 7 ottobre 2023. Viene definita da fonti palestinesi come la guerra più dura condotta finora, in termini di vittime civili. È così?

“Si, anche se va detto che per l’IDF, le forze armate israeliane, su circa 40 mila morti che sono stimati dal Ministero della Salute di Gaza, almeno 17 mila sarebbe stato costituito da terroristi”.

Perché sono risultati vani i tentativi di negoziato?

“Perché quello israelo-palestinese è il conflitto di più difficile soluzione al mondo e forse nella storia umana, dato che viene da generazioni e generazioni di guerre. Oggi è complicato provare a costruire una pace fondata su due Stati dato che uno stato arabo palestinese non c’è più nei fatti. C’era nel 1948 quando gli stati arabi hanno attaccato Israele. Oggi invece ci sono due aree distanti, guidate da due fazioni politiche opposte – Fatah e Hamas – di cui una guida l’Autorità Palestinese, che però controlla solo parzialmente le enclavi palestinesi nella West Bank, e l’altra è una organizzazione terroristica finanziata dall’Iran, un Paese rivoluzionario che cerca di distruggere Israele dal 1979 e di minare la pace nella regione e nel mondo, visto il supporto all’invasione Russia in Ucraina”.

Israele è più isolata da un punto di vista diplomatico?

“Non credo, perché l’Occidente sosterrà sempre Israele, come tutti i popoli che hanno diritto all’autodeterminazione e a uno Stato proprio, che ha costituito l’obiettivo della creazione dello Stato d’Israele dopo la costituzione delle Nazioni Unite e la fine del colonialismo in Medio Oriente. Inoltre, gli Accordi di Abramo con i Paesi Arabi non sono stati interrotti, anzi continuano per una possibile espansione. Ultimamente, per esempio, l’ambasciatore dell’Arabia Saudita ha partecipato al vertice del Dialogo Medio Oriente-America (MEAD, ndr) a Washington, insieme a rappresentanti israeliani, in coincidenza del quarto anniversario degli Accordi”.

Immaginando un futuro in cui ci sia un cessate il fuoco e, possibilmente, una soluzione di pace, come potrebbe essere ridisegnata la Striscia di Gaza?

“Gaza potrebbe essere parte di uno stato Palestinese solo a patto che i negoziati fra Israele e il mondo arabo continuino. Se e quando l’Arabia Saudita firmerà gli Accordi di Abramo allora si potrà iniziare a parlare di soluzione della questione Palestinese, che avrà bisogno soprattutto di un accordo diplomatico ed economico dei fratelli Arabi, in primis appunto Arabia Saudita ed Egitto, e poi anche dell’altra potenza musulmana della regione che è la Turchia”.

Quindi la questione arabo-palestinese va inserita in un quadro più ampio?

“Esatto, sta all’interno della questione più ampia di un ordine regionale nella regione più volatile del pianeta, che porterà pace e sviluppo solo a patto di un accordo quadro fra questi Paesi nel lungo periodo. A livello territoriale l’unica soluzione che vedo possibile per uno Stato palestinese a lungo termine è forse nella Penisola del Sinai in Egitto, insieme alla Striscia di Gaza, protetta da forze internazionali e con smart cities finanziate dalle potenze Arabe, per i rifugiati Palestinesi abbandonati in questi decenni prima di tutto dai loro ‘fratelli Arabi’”.

È plausibile pensare a un governo di Gaza escludendo totalmente Hamas?

“Non credo, ma non è possibile nemmeno un governo a Gaza con Hamas come gruppo armato, creato come Movimento di Resistenza Islamica nel 1987, come ‘ala paramilitare’ di un gruppo Palestinese della Fratellanza Musulmana. Finché Hamas non sarà trasformato da gruppo armato a solo partito politico con un processo di DDR (disarmo, smobilitazione e reintegrazione, ndr), come viene fatto in tutti i processi di pace, non ci sarà soluzione al conflitto. Israele d’altra parte aveva lasciato l’occupazione di Gaza nel 2005, che da allora è stata occupata da Hamas la cui parte politica vinse le elezioni nel 2006, e la parte militare scatenò una guerra civile contro Fatah, cacciandola da Gaza nel 2007. Finché non ci sarà una riconciliazione fra queste due parti politiche non ci sarà la pace con Israele e tanto meno uno stato Arabo Palestinese”.

La minaccia di sospensione della fornitura di armi a Tel Aviv è stata ricorsiva: è stata un ricatto o si è rivelata inefficace?

“Lo ritengo inefficace. Nel 2024 Israele ha investito 30 miliardi di dollari nel budget militare”.

Benjamin Netanyahu nei mesi scorsi aveva annunciato che l’operazione militare per rendere inoffensiva Hamas sarebbe proseguita fino a fine anno: c’è da aspettarsi che si prosegua ancora?

“Io penso che continuerà, anche se a bassa intensità, soprattutto per le pressioni internazionali nel difendere il diritto internazionale umanitario e finire i massacri della popolazione civile. Il percorso comunque è ancora lungo, perché finché il regime dittatoriale iraniano continuerà a finanziare questo e altri gruppi terroristici sarà difficile arrivare a un processo di pace che porti una realtà di stato arabo-palestinese e nel lungo termine sicurezza, e poi sviluppo alla regione”.

Quanto potrà cambiare la situazione dopo il voto americano di novembre?

“Dipenderà se la nuova amministrazione vorrà spingere per accelerare gli Accordi di Abramo con l’Arabia Saudita e soprattutto aumentare la deterrenza verso il regime degli Ayatollah, che finché non avrà una transizione politica con forze laiche e democratiche in futuro continuerà la sua minaccia costante verso l’esistenza di Israele”.

guerra-israele-hamas-7-ottobre Fonte foto: ANSA
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