Quanto è davvero possibile una tregua tra Hamas e Israele dopo l'annuncio di Biden e le richieste di Netanyahu
L'intervista a Giuseppe Dentice (Centro studi internazionali) sulla possibile tregua Israele-Hamas: “Netanyahu a un bivio", cosa rischia
Non è un cessate il fuoco definitivo, quanto piuttosto una tregua. In quanto tale è temporanea, come ha chiarito il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, riferendosi all’ipotesi di un accordo con Hamas sulla proposta degli Stati Uniti e con la fondamentale mediazione di Qatar ed Egitto. L’intervista a Giuseppe Dentice, analista e responsabile del desk Middle East e North Africa del Centro Studi internazionali (Ce.S.I.).
- L'ipotesi di una tregua: i distinguo di Hamas e Netanyahu
- Israele giudica "parziale" il piano di Biden
- L'intervista a Giuseppe Dentice
L’ipotesi di una tregua: i distinguo di Hamas e Netanyahu
Sembrava che il ministro degli Esteri del Cairo, Sameh Shoukry, avesse anticipato l’intesa, ma fonti di Hamas avrebbero detto che le sue affermazioni “non sono la risposta ufficiale“.
Poi è arrivato il messaggio del leader di Israele: “Si tratta di un cessate il fuoco temporaneo, per i profughi, che però non fermerà la guerra” ha chiarito Netanyahu, evidenziando la necessità di una tregua temporanea per liberare gli ostaggi, con l’obiettivo finale che resta la distruzione di Hamas.
Il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry, insieme all’omologo italiano, Antonio Tajani
Israele giudica “parziale” il piano di Biden
L’intervista a Giuseppe Dentice
Cosa rappresenta questa intesa, che arriva a 8 mesi dall’inizio del conflitto?
“La premessa è che sembrerebbe un accordo accompagnato da molti se e molti ma. Potrebbe essere un primo passo nella misura è il risultato di pressioni internazionali che stanno portando Israele a un parziale ripensamento”.
Israele, però, sembra dover fare i conti anche con spaccature al proprio interno…
“Sì, una dimostrazione sono state le anticipazioni della scorsa settimana, quanto il presidente statunitense Joe Biden ha affermato che Israele avrebbe un piano di tregua, presentandolo come proveniente dalle stesse autorità israeliane, salvo poi la smentita di Netanyahu. Significa che Tel Aviv fa i conti con le pressioni internazionali, ma anche con le divergenze interne, come quelle del gabinetto di guerra che non sposa le posizioni massimaliste della destra nazional-religiosa vicina al ministro delle Finanze Bezalel Smotrich”.
Come sono cambiati i rapporti con gli Stati Uniti?
“Certamente Israele è molto più isolata a livello internazionale e proprio gli Stati Uniti stanno esercitando forti pressioni da mesi. Credo che un Paese come Israele non possa correre il rischio di passare, all’interno della comunità internazionale, come il paria del sistema internazionale e delle democrazie. Sarebbe un problema dal punto di vista reputazionale, e non di poco conto”.
Ora è fattibile perseguire la linea della fermezza del recupero degli ostaggi con quella di una tregua?
“In teoria sì, ma occorre vedere la reale disponibilità sia di Israele che di Hamas. Entrambe anche in precedenza si sono dette formalmente disponibili a un accordo, ma col passare delle ore quelle dichiarazioni sono mutate al cambiare dello scenario. Bisognerebbe capire su cosa esattamente Tel Aviv è disposta a trattare, specie se la proposta è quella trapelata venerdì notte, cioè se comprende anche un ritiro israeliano dalle aree densamente popolate del centro nord, già controllate in precedenza, o se implichi la cessazione dei combattimenti e il rilascio di prigionieri palestinesi”.
Manca anche la conferma del leader di Hamas, Ismail Haniyeh…
“Esatto e questo non è poco. Occorre capire, prima di tutto se, come sembra, sarà solo una tregua temporanea o se porterà a un vero e proprio ‘cessate il fuoco’ e poi a un piano più articolato e di maggiore respiro”.
Qual è il ruolo dell’Egitto in questo primo atteso passo, dal momento che la notizia è arrivata per prima dal ministero degli Esteri del Cairo, dopo diversi negoziati nella capitale egiziana?
“Non è affatto casuale. Il Cairo spinge da settimane per interrompere le operazioni militari a Rafah, lasciando libero il valico e soprattutto il corridoio di Philadelphia che, secondo gli accordi di Camp Davi, dovrebbe essere sotto controllo egiziano. Il fatto che ora non lo sia ha scatenato forti proteste egiziane. In più questo ha portato ad aumentare il dissenso della popolazione egiziana: c’è un’aria di contestazione che preoccupa il governo egiziano e lo ha portato ad aumentare la propria azione di mediazione”.
Intanto il ministro israeliano della Difesa, Yoav Gallant, ha detto al segretario di Stato americano Antony Blinken che lo Stato ebraico è determinato a smantellare Hamas e a trovare un’alternativa per governare Gaza, come riferisce il Times of Israel. Chi potrebbe subentrare?
“In questo caso le previsioni sempre molto azzardate e difficili. Obiettivamente la scelta dovrebbe ricadere sull’Autorità Nazionale Palestinese (ANP, che però è fortemente delegittimata dalla popolazione e squalificata al proprio interno. È pur vero che i civili a Gaza vivono con profonda angoscia la situazione umanitaria e criticano l’operato di Hamas. Ma, anche volendolo reinsediare l’ANP, questa avrebbe forza e autorevolezza per governare il territorio?”
Quale alternativa?
“È ipotizzabile che, all’interno dell’accordo e nel punto in si affronta il tema della ricostruzione, ci possa essere l’intenzione internazionale di una sorta di governo ad interim a guida araba, che potrebbe rappresentare una transizione prima di indire una votazione palestinese. Se così non fosse ci sarebbe il rischio di veder replicato il copione di 17 anni fa quando Hamas vinse le elezioni, ma poi si scatenò lo scontro con l’ANP. Il resto, purtroppo, è storia recente. Vanno valutati gli elementi sul terreno, che ad oggi sono ancora confusi”.
Dopo il “sì” di Norvegia, Spagna e Irlanda al riconoscimento dello stato di Palestina, si avvicina la sua istituzione?
“La mossa dei tre paesi ha avuto il suo effetto, anche in termini di reazioni: certo molto veementi da parte di Israele, ma che hanno portato anche a una forte pressione su Israele e a notare come al momento l’Occidente non sia più coeso e unito intorno alle istituzioni di Tel Aviv. Ripeto, credo sia un momento delicato perché Israele non può permettersi un discredito internazionale”.