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Per Liliana Segre quello di Gaza non è genocidio: "Evitare l'abuso della parola, accusa strumentale a Israele"

La senatrice a vita Liliana Segre critica l'abuso del termine "genocidio" riferito a Gaza e denuncia la strumentalizzazione contro lo Stato d'Israele

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Giorgia Bonamoneta

GIORNALISTA

Giornalista pubblicista, si concentra sulla politica e la geopolitica, scrive anche di economia e ambiente. Laureata in Editoria e Scrittura presso La Sapienza di Roma, ha iniziato a scrivere per una testata impegnata sui diritti civili, prima di lavorare in diverse testate di attualità.

In un articolo scritto di suo pugno, la senatrice a vita Liliana Segre esprime preoccupazione per l’abuso del termine “genocidio“, riferendosi a quanto succede a Gaza. Una parola che, secondo lei, è stata trasformata in un’arma e in accuse strumentali contro Israele.

L’abuso della parola “genocidio”

Liliana Segre sostiene che, nel caso della situazione di Gaza, non si riscontrano i due tratti fondamentali che caratterizzano un “genocidio”: la pianificazione della completa eliminazione di un gruppo etnico o sociale e l’assenza di un rapporto diretto con una guerra.

Segre cita esempi storici di genocidi riconosciuti, come la Shoah, il genocidio del Ruanda e altri, per spiegare la differenza rispetto a quanto sta accadendo nella Striscia di Gaza.

Gaza dopo oltre un anno di bombardamenti israeliani

L’analisi porta con sé alcune perplessità. Segre dice che a Gaza si deve parlare di crimini contro l’umanità, non di genocidio. Il termine genocidio (geno- dal greco “razza o tribù” e –cidio dal latino “uccidere”) è stato coniato dall’avvocato ebreo-polacco Raphael Lemkin per descrivere “l’insieme di azioni progettate e coordinate per la distruzione degli aspetti essenziali della vita di determinati gruppi etnici, allo scopo di annientare i gruppi stessi”. Con questo intento è stato aggiunto il termine descrittivo all’accusa di “crimine contro l’umanità” a Norimberga.

Tra le sue caratteristiche troviamo:

  • uccisione di membri del gruppo;
  • lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
  • il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
  • misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;
  • trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo a un altro.

Queste azioni sono state tutte compiute da Israele nei confronti del popolo Palestinese, ben prima del fatidico 7 ottobre, anche se con maggiore intensità da questa data in poi.

Accuse strumentali?

Segre denuncia quindi che l’uso del termine “genocidio” per descrivere l’operato di Israele diventa un’accusa che va oltre il governo in carica, colpendo l’intero Stato e il popolo israeliano. Questa demonizzazione, secondo Segre, non solo è ingiusta ma è anche controproducente per le prospettive di pace tra israeliani e palestinesi.

Inoltre, la senatrice evidenzia come questa narrativa abbia alimentato un’ondata di antisemitismo (il termine “semita” indica anche il popolo Arabo e tutti gli altri gruppi di lingua semitica) a livello globale, con manifestazioni che non si vedevano da decenni. L’accusa di genocidio, spesso accompagnata da paragoni con il nazismo, riporta alla luce stereotipi antisemiti che, secondo Segre, minano le fondamenta stesse del dialogo e della convivenza.

Ma sono davvero accuse strumentali? Fin dalla fondazione dello Stato d’Israele (non Stato ebraico, che invece non ha mai visto la luce) le parole contro il popolo Arabo palestinese sono state esplicite. Per esempio quelle di David Ben-Gurion, Primo ministro israeliano e uno dei progettisti dello Stato d’Israele, che nel 1937 disse: “Dobbiamo espellere gli arabi e prendere il loro posto”.

Difendere la memoria storica

A Segre sta a cuore la memoria storica, ma anche il presente, che però non cita. Purtroppo anche ai giorni nostri i toni usati contro i palestinesi non sono diversi. Tra i più controversi c’è il ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir, che arma i coloni (che poi uccidono i palestinesi) e invita all’assassinio. Le parole sono esplicite: “Sparate anche a donne e bambini”. Parole simili a quelle usate dal capo rabbino e docente Eliyahu Mali, che dice: “Secondo il principio halachico, uccidi tutti a Gaza, anche i bambini”.

La senatrice Segre lega l’abuso del termine genocidio a un fenomeno più ampio di banalizzazione e relativizzazione della memoria storica: “Se crolla l’argine del linguaggio, domani potrà passare ben altro”, avverte.

Ma è Segre stessa a invitare al rispetto della complessità della realtà, senza però un riferimento a cosa sta accadendo in Israele ora. Basta girare sulle piazze fisiche e virtuali per vedere persone bloccare i camion di aiuti umanitari (per far arrivare cibo, acqua e medicine a Gaza) o sentire i giovani israeliani su TikTok invocare l’eliminazione dei palestinesi. Tra questi, influencer con migliaia di follower recitano: “Non bisogna lasciare nemmeno uno sputo di Dna palestinese” o ancora “Se Israele eliminasse 2,3 milioni di palestinesi il mondo ci ringrazierebbe”.

Inoltre, come risulta da un sondaggio dello scorso 23 dicembre 2023: l’83% degli israeliani è d’accordo con la deportazione di tutta la popolazione di Gaza. Un dato che il deputato israeliano Danny Danon ha salutato con felicità. Dopotutto non stupisce che lo slogan dei politici e dei soldati è ormai: “A Gaza non ci sono civili”. Questa non è memoria, ma attualità e il problema dell’uso o abuso del termine “genocidio” appare quindi secondaria rispetto alle azioni compiute e per le quali la Corte penale internazionale ha emesso un mandato d’arresto nei confronti del Premier israeliano Benjamin Netanyahu.

Fonte foto: ANSA

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