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L'impatto del femminicidio di Giulia Cecchettin, cosa scatta nella testa delle vittime: risponde la psicologa

La psicologa spiega quali meccanismi scattano nella mente delle vittime di violenza, ma anche il motivo del clamore del caso di Giulia Cecchettin

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Già dalla scomparsa di Giulia Cecchettin e Filippo Turetta, il caso dei due ragazzi veneti ha attirato l’attenzione dei media. La storia dei 22enni, scomparsi a Vigonovo nella provincia di Venezia, ha occupato le prime pagine di giornali e siti, monopolizzando l’attenzione dei telegiornali. Dopo il ritrovamento del cadavere della studentessa, tanti vip – soprattutto sui social – hanno commentato la sua morte in massa. L’analisi di Fiorenza Perris – psicologa, psicoterapeuta e Clinical Director del servizio di psicologia online Unobravo – ai microfoni di Virgilio Notizie.

L’impatto della morte di Giulia Cecchettin

L’impatto sull’opinione pubblica è stato notevole: l’età della vittima e del carnefice e il fatto che non provenissero da contesti di emarginazione sociale hanno contribuito a renderlo un caso ‘esemplare’. Purtroppo anche nell’epilogo, con la morte di Giulia e le polemiche che ne sono seguite.

Persino i vip, da Mara Venier a Simona Ventura passando poi per Elodie (che ha interrotto il suo concerto per osservare un minuto di silenzio), Renato Zero e Piero Pelù, non si sono sottratti da commenti: proprio lo storico leader dei Litfiba si è lasciato andare a un duro attacco al genere maschile, che ha postato sui social: “Mi vergogno di essere uomo. Siamo tutti da rifare”. Immediate le risposte, anche polemiche (“Piero cosa c’entra l’uomo con uno psicopatico?” ha replicato un follower, mentre un altro ha scritto: “Io non mi vergogno, stiamo parlando di un assassino”).

giulia cecchettin filippo turettaFonte foto: ANSA
Giulia Cecchettin, la 22enne di Vigonovo uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta

Il motivo del clamore

Perché tanto clamore? Lo spiega a Virgilio Notizie la psicologa e psicoterapeuta Valeria Fiorenza Perris: “Può essere riconducibile al fatto che alla storia è stata dedicata copertura mediatica fin dal principio: dalla sparizione della coppia fino al tragico ritrovamento del corpo di Giulia. Questo ha permesso agli italiani di seguire gli sviluppi della vicenda in tempo reale, creando un forte coinvolgimento emotivo”.

Poi, il passaggio sui familiari della vittima: “Un altro elemento chiave è stata la gestione lucida e consapevole delle comunicazioni da parte dei familiari di Giulia, in particolare della sorella. Nel suo discorso, Elena Cecchettin ha offerto una prospettiva di ampio respiro, individuando con puntualità e precisione tutti quei fattori culturali ed educativi, così come quei comportamenti che ancora oggi, purtroppo, sono comunemente accettati e minimizzati. Ma che, in realtà, contribuiscono a normalizzare atteggiamenti violenti, limitanti e aggressivi nei confronti delle donne”.

“Il coinvolgimento delle istituzioni e di personaggi pubblici ha sicuramente contribuito a dare ancora più risonanza alla vicenda”, ha aggiunto l’esperta, sottolineando che la combinazione di tutti questi elementi ha fatto sì che la storia di Giulia divenisse motore e punto di partenza per una discussione più ampia sulla nostra cultura e società e sulla necessità di mettere in atto azioni concrete per estirpare la violenza di genere alla radice, a partire dalla matrice culturale da cui trae origine”.

La giornata contro la violenza sulle donne

Il caso, infatti, è arrivato pochi giorni prima della Giornata contro la violenza sulle donne.

Non a caso l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) la definisce anche “un problema di salute di proporzioni globali enormi” e stima che 1 donna su 3, ovvero oltre 700 milioni in tutto il mondo, subisca violenza fisica o psicologica da parte di un uomo nel corso della propria vita.

La violenza può avere forti ripercussioni sul benessere fisico, mentale, sessuale e riproduttivo di coloro che ne sono vittime, sul breve così come sul lungo termine.

Le conseguenze possono tradursi per le donne in isolamento sociale, limitazioni nell’abilità lavorativa e compromissione della capacità di prendersi cura di sé stesse e dei propri figli.

Il problema riguarda anche l’Italia, naturalmente: secondo l’Istat, nei primi tre trimestri del 2023 sono state 30.581 le richieste d’aiuto arrivate tra telefonate e messaggi via chat al 1522, la linea nazionale antiviolenza e stalking.

Un numero molto preoccupante, soprattutto se confrontato con le 22.553 registrate nel 2022 e le 24.699 del 2021.

L’intervista a Fiorenza Perris

Di cosa hanno più paura le donne che trovano il coraggio di chiedere aiuto?

“Intanto va detto che il 64,5% delle donne che si sono rivolte all’1522 nel 2023 riporta di aver subito violenze per anni, il 25,5% per mesi, mentre il dato relativo alle richieste di aiuto a seguito di uno o pochi episodi di violenza si attesta al 10%. Il 24,8% ha paura di morire oppure teme per la propria incolumità o quella dei propri cari, mentre il 10,2% si sente molestata, ma non in pericolo. Altre donne, invece, provano forte ansia o si sentono in grave stato di soggezione”.

È per questo che si denuncia ancora troppo poco? Cosa frena dal rivolgersi ai centri di aiuto?

“Denunciare significa dover affrontare la verità dolorosa di quanto vissuto, cosa molto difficile da fare. Uno dei motivi per cui non lo si fa può essere la paura della reazione dell’aggressore e di subire ritorsioni, ma anche l’ansia legata allo stigma sociale, la preoccupazione del giudizio o di non essere creduta, la vergogna e il senso di colpa. Alcune donne, invece, non denunciano per paura di compromettere il contesto familiare o perché non sono finanziariamente autonome e non saprebbero dove altro andare. Anche i meccanismi psicologici di difesa che spesso si innescano nelle vittime di violenza di genere possono, a volte, costituire un freno”.

Quali sono i meccanismi psicologici che scattano in queste situazioni?

“In gergo si chiamano ‘meccanismi psicologici di difesa’: sono dei processi inconsci che si attivano automaticamente di fronte a eventi, interni o esterni, percepiti come pericolosi o stressanti, come, ad esempio, gli episodi di violenza. Nonostante questi meccanismi abbiano un’importante funzione protettiva e difensiva, potrebbero, in alcuni casi, alterare la percezione di pericolo e far sì che la vittima di violenza abbassi la guardia e non prenda azioni concrete per salvaguardare la propria incolumità”.

Quali sono i comportamenti più diffusi?

“Per esempio, la negazione. Consiste nel proteggersi da una situazione traumatica evitando di guardarla e mettendo da parte o eclissando gli aspetti dolorosi e insostenibili della realtà. Coloro che mettono in atto questo meccanismo spesso tendono a minimizzare o addirittura a giustificare il comportamento dell’aggressore. La negazione può essere molto pericolosa, in quanto potrebbe portare la donna a non proteggersi da possibili nuovi maltrattamenti o abusi. Un altro comportamento può essere l’evitamento. In questo caso si vive l’impossibilità di confrontarsi con un’esperienza traumatica. Nel raccontare le violenze subite, le donne che attuano questo meccanismo tendono spesso a perdersi in dettagli superflui, mantenendo una certa distanza dal problema principale. In molti casi si nota anche la tendenza a evitare situazioni che possano provocare e far ‘scattare’ l’aggressore”.

Esistono poi anche atteggiamenti che sono tipici di eventi traumatici?

“Sì, per esempio la dissociazione e depersonalizzazione. Nel primo caso si tratta di una strategia difensiva che aiuta a distanziarsi da una situazione intollerabile, in cui non c’è altra via d’uscita per sottrarsi alla violenza. A volte può prendere la forma della depersonalizzazione: le vittime possono sentirsi come spettatrici della propria vita, quasi come se la violenza stia accadendo a qualcun altro, contribuendo a distanziare l’esperienza traumatica. Infine, ci possono essere la minimizzazione e la razionalizzazione. Con la prima si tende a sottostimare e minimizzare gli atti violenti, considerandoli meno gravi di quanto siano in realtà. Con la seconda si fornisce una giustificazione razionale del comportamento dell’aggressore da parte della vittima, attribuendolo a fattori esterni, come lo stress, la gelosia o problemi personali”.

Sono tanti anche i casi nei quali le vittime arrivano anche a idealizzare il partner, seppure violento?

“Possono capitare. Significa concentrarsi sulle sue qualità positive, ignorandone i difetti. Ciò che va sottolineato è che, in tutti i casi, ciascuno di noi, sia uomo sia donna, può fare molto per far sì che la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne passi dall’essere un momento di urgenza e lotta contro la violenza di genere a un’occasione in cui celebrare i traguardi raggiunti dalla nostra società”.

giulia-cecchettin-psicologa Fonte foto: ANSA
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