L'anniversario del delitto di Cogne e la morte del piccolo Samuele: cosa fa oggi Annamaria Franzoni
Il delitto di Cogne è uno dei casi di cronaca nera più mediatici: cosa fa oggi Annamaria Franzoni, condannata per l'omicidio del figlio Samuele
Il 30 gennaio 2002, in una villetta di Montroz, una frazione di Cogne (Valle d’Aosta), un bambino di 3 anni viene trovato morto. Si tratta di Samuele Lorenzi, figlio di Stefano Lorenzi e Annamaria Franzoni. E proprio la madre è stata condannata definitivamente per l’omicidio del piccolo.
Questo evento di cronaca ha dato inizio alla stagione della cosiddetta ‘anti-criminologia da salotto‘, fatto di spettacolarizzazione e rintuzzato da trasmissioni a tema dove esperti, pseudo-tali, tuttologi e personaggi di vario genere (spesso privi di ogni competenza in materia), hanno pontificato sulla vicenda.
A differenza di altri casi di delitti efferati del passato, che pure avevano pesantemente coinvolto l’opinione pubblica (con abituale divisione fra ‘colpevolisti’ e ‘innocentisti’), stavolta si è verificato un fenomeno del tutto nuovo: la pseudo-analisi del caso dal punto di vista investigativo, con un’intera nazione che, come per un arcano incantesimo, si è trasformata in un contenitore di 60 milioni di criminologi.
- La telefonata al 118
- L'arrivo dei soccorsi e l'autopsia
- Il pigiama, l'arresto e la scarcerazione
- La scena del crimine
- Le contraddizioni di Annamaria Franzoni
- Le condizioni psichiatriche di Annamaria Franzoni: cosa hanno detto le perizie
- I processi e la sentenza definitiva
La telefonata al 118
È il 30 gennaio 2002 e a Montroz, piccola frazione di Cogne, stupenda cittadina valdostana, fa molto freddo. C’è anche tanta neve.
All’improvviso, da una pregevolissima villetta-baita, parte una richiesta telefonica di soccorso indirizzata al 118: sono le ore 8.28.
L’operatore registra la voce di una madre disperata, che dice di aver trovato il proprio bambino agonizzante nel suo letto.
Viste le difficoltà logistiche legate alle abbondanti nevicate, ma anche l’estrema gravità del caso, sul posto viene subito inviato un elicottero.
La donna al telefono si chiama Annamaria Franzoni, 30enne sposata con Stefano Lorenzi.
La coppia ha due figli: il più grande, Davide (6 anni) e il più piccolo, Samuele (3). Ed è quest’ultimo a essere in gravissime condizioni.
Carabinieri ispezionano i dintorni della villetta di Cogne
L’arrivo dei soccorsi e l’autopsia
Il primo ad arrivare sul posto è il medico di famiglia dei Lorenzi: la scena che le si presenta davanti è agghiacciante.
Il bimbo ha avuto crisi di vomito ematico e presenta una profonda ferita cerebrale, dalla quale è fuoriuscita addirittura materia organica.
La dottoressa ipotizza un’emorragia cerebrale, prodotta da crisi continue e disperate di pianto, ma non si spiega l’apertura della teca cranica. Alla fine – francamente con motivazione discutibile – ritiene che ciò sia avvenuto a causa dell’abnorme pressione intracranica.
Dopo aver prestato i primi soccorsi e lavato le ferite – probabilmente per tentare disperatamente di arrestare la perdita di materia cerebrale e di sangue – adagia il bambino su una sorta di lettiga all’aperto, lasciandolo all’addiaccio.
Nel frattempo, dopo circa un’ora, arrivano i soccorritori con l’elicottero che scendono e si avvicinano al bambino, ma non possono far altro che constatare il decesso: sono le 9:55 quando Samuele Lorenzi viene dichiarato morto.
La causa del decesso, però, non è più attribuita a un fattore naturale bensì a un possibile trauma esterno: vengono allertati i carabinieri e il medico legale, che giungono per i primi rilievi.
Dopo qualche giorno, viene effettuata l’autopsia: il referto è raggelante, Samuele è stato brutalmente ucciso, colpito con forza per ben 17 volte attraverso un corpo contundente fatto di rame.
La precisazione del materiale dell’oggetto dipende dal rinvenimento, nel cranio della vittima, di micro-frammenti del metallo.
Gli inquirenti ipotizzano vari oggetti domestici, come ad esempio qualche mestolo, ma pur passando a setaccio diversi utensili di rame presenti in casa (tipici delle abitazioni di montagna) non riescono ad individuare l’arma del delitto.
Fra le ipotesi peggiori, spunta anche quella di una piccozza alpina: ma l’arma del delitto non sarà comunque mai ritrovata.
Dall’autopsia emerge un altro elemento estremamente struggente: le mani della vittima presentano ecchimosi e micro-abrasioni compatibili con disperati tentativi di difesa.
A quel punto, in tutta Italia, ci si chiede chi abbia potuto uccidere in quel modo un bimbo di 3 anni.
Annamaria Franzoni
Il pigiama, l’arresto e la scarcerazione
Sin dalle prime attività investigative si delinea il quadro di un delitto ‘domestico’, nel senso che è stato compiuto da qualcuno interno all’abitazione.
L’ipotesi è fortemente corroborata dall’indubbio dato della totale assenza di tracce di intrusione di soggetti esterni. Fra l’altro, le tracce ematiche sono soltanto in una zona della casa: quella della camera da letto del bambino.
L’unica a essere presente nella casa al momento del delitto è la madre, sulla quale crescono i sospetti.
Contro di lei, le numerose dichiarazioni contraddittorie e configgenti con i dati obiettivi.
Ciò che, però, convince gli inquirenti della sua colpevolezza è il fatto che viene rinvenuto il pigiama della donna (seminascosto nel suo letto) coperto di tracce di sangue, come anche le sue scarpe, e la presenza, sulle maniche dello stesso vestito, di materiale organico di tipo cerebrale.
La madre avrebbe avuto indosso il pigiama al momento del delitto e, per questo, sarebbe stato investito da schizzi abbondanti di sangue e di materia cerebrale.
Il 14 marzo 2002 Annamaria Franzoni viene arrestata con l’accusa di omicidio volontario.
Il 30 marzo 2002, però, il Tribunale del Riesame di Torino, dispone la sua scarcerazione per mancanza di indizi: la donna resta tuttavia indagata a piede libero.
La scena del crimine
Nel terrificante figlicidio di Cogne, la scena del crimine viene alterata, involontariamente e in buona fede, dall’arrivo dei soccorritori, soprattutto da parte della dottoressa intervenuta per prima.
La donna, dopo aver rimosso il bambino dal letto, lo ha lavato (perché insanguinato), lo ha pulito e gli ha prestato le prime cure, addirittura portandolo fuori dalla casa.
Queste azioni hanno compromesso, pesantemente e irreversibilmente, la genuinità della scena del crimine.
Tuttavia, soltanto gli abiti di Annamaria Franzoni erano macchiati di sangue e di materiale organico-cerebrale. E le tracce, come detto, si sono rivenute solo nella camera della vittima, quindi in una zona limitata dell’abitazione, condizione del tutto incompatibile con l’accesso intrusivo di uno sconosciuto in casa. Nel senso che se l’assassino fosse stato un estraneo avrebbe macchiato anche altri ambienti, durante la fuga. Inoltre, in casa non manca nessun oggetto, non ci sono tracce o impronte attribuibili ad altri soggetti, così come mancano segni di effrazione agli infissi.
Per questo non convince l’ipotesi prospettata dalla difesa, secondo cui un omicida, uno sconosciuto, avrebbe indossato il pigiama di Annamaria Franzoni prima di commettere il delitto, per poi riporlo fra le coperte del letto della donna.
Perché mai avrebbe dovuto farlo? Sarebbe stato un comportamento assurdo anche per il più sprovveduto dei criminali.
A ciò si aggiunge, il falso rinvenimento di impronte di un ‘misterioso estraneo‘, effettuato dai legali difensivi sull’uscio di una porta, a due anni dal delitto: un qualcosa di fantasioso, visto che non solo non si tratta di tracce ematiche umane, ma addirittura non è sangue.
Le contraddizioni di Annamaria Franzoni
Contro Annamaria Franzoni ci sono anche le sue dichiarazioni, contraddittorie e sospette.
Molte sue frasi non genuine, o tantomeno veritiere, vengono rilevate dalle intercettazioni. Fra le tante, meritano di essere menzionate le dichiarazioni antitetiche e specularmente opposte relative alla porta del garage: prima, con convinzione, asseritamente chiusa; poi, pervicacemente, dichiarata aperta.
Del resto, proprio la mattina del delitto, alle ore 5, la donna aveva telefonato alla guardia medica per un malore, poi ricondotto dalla stessa a uno stato di alterazione febbrile.
In realtà – a seguito dei dovuti riscontri investigativi – la Franzoni aveva riferito al medico di turno di sentirsi male per dei capogiri, senso di tremore generalizzato, percezione di uno stato di angoscia e una crisi di panico.
L’intercettazione più inquietante è quella di una conversazione telefonica con un amica del 6 marzo 2002, in cui riferisce di non sapere quello ‘che le è successo‘, per poi subito correggersi in quello ‘che è successo‘.
Stefano Lorenzi e Annamaria Franzoni
Oltre a questo, nel corso degli anni, Annamaria Franzoni ha sempre cercato di difendersi, accusando vicini e conoscenti insieme al marito Stefano Lorenzi: tutte persone risultate estranee ai fatti.
Per queste accuse false, i coniugi sono stati condannati per calunnia.
Le condizioni psichiatriche di Annamaria Franzoni: cosa hanno detto le perizie
Ovviamente, in tutti gli omicidi (salvo rarissime eccezioni) esiste un movente. Alcuni sono ordinari, altri traggono origine da disturbi mentali di vario genere, tipologia ed intensità.
Di solito, nei figlicidi, la genesi del delitto è da rinvenire nella seconda ipotesi: è chiaro che una madre sana di mente, in genere, non uccide un figlio, soprattutto in tenera età.
Ciò dal punto di vista dell’inquadramento tipologico omicidiario di tipo clinico e psichiatrico, ma tutt’altro discorso è quello che attiene alla valutazione forense e giudiziaria, con conseguente eventuale riconoscimento dell’incapacità di intendere e di volere del soggetto agente, che può anche non essere presente.
Le due realtà operano su piani diversi, che possono intersecarsi, ma non debbono necessariamente: quindi, anche nel delitto di Cogne si segue la matrice criminogenetica di tipo psicopatologica.
La donna viene sottoposta a diverse perizie. La più importante delle quali viene affidata al professore Ugo Fornari, luminare della psichiatria (soprattutto forense). Per l’esperto, al momento del delitto, la donna avrebbe presentato una condizione morbosa di tipo psichico denominata ‘nevrosi isterica’. Questa patologia produce, come effetti, uno stato di persistente agitazione, nervosismo, facile irritabilità, reazioni abnormi e sproporzionate (talvolta estreme) nei confronti di stimoli costanti e continui, anche di scarso spessore ed intensità.
Statisticamente è dimostrato che uno di questi stimoli in grado di scatenare una reazione di totale discontrollo aggressivo in questi soggetti è proprio il pianto ininterrotto di un bambino.
A volte, dopo l’evento criminoso violento, si può riscontrare nel soggetto agente anche un’amnesia di durata variabile.
Può capitare che questa condizione sia provocata dalla famigerata depressione post partum.
In diversi casi, l’innesco (fattore di stress) può avvenire con la nascita di un altro figlio, che muta completamente l’equilibrio della madre e lo status quo dell’ambiente familiare.
Dal punto di vista giuridico-forense, comunque, Annamaria Franzoni è stata ritenuta capace di intendere e di volere.
I processi e la sentenza definitiva
Il 19 luglio 2004 si celebra il processo di primo grado, con rito abbreviato, nei confronti di Annamaria Franzoni: il giudice per l’udienza preliminare, Eugenio Gramola, la riconosce colpevole del reato di omicidio volontario e la condanna a 30 anni di reclusione.
Il 27 aprile 2007, davanti alla Corte di Assise di Appello di Torino, la pena viene quasi dimezzata e scende a 16 anni di carcere: questo perché le attenuanti generiche vengono considerate equivalenti alla circostanza aggravante insita nell’omicidio.
Il 21 maggio 2008, la parola definitiva viene pronunciata dalla prima sezione penale della Corte di Cassazione, che conferma la condanna.
Ma Annamaria Franzoni esce prima dal carcere, perché il 26 giugno 2014 passa agli arresti domiciliari. Già da tempo, lavorava all’esterno ed usufruiva di permessi per la sua buona condotta in carcere.
Nel settembre 2018 viene definitivamente scarcerata, potendo fruire anche di un indulto e dello sconto per buona condotta (la notizia diventerà di dominio pubblico il 7 febbraio 2019).
Complessivamente 6 anni di carcere (con lavoro all’esterno) e quasi 5 agli arresti domiciliari.