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L'Aifa restringe la prescrizione della vitamina D: a cosa serve e perché si parla di abuso del farmaco

L’Aifa limita la prescrizione della vitamina D: Annamaria Colao, presidente Sie, spiega il motivo, ma anche l’utilità della vitamina stessa

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L’assunzione di vitamina D “per diversi anni non è in grado di modificare il rischio di frattura nella popolazione sana, senza fattori di rischio per osteoporosi”. A scriverlo, nero su bianco, è stata l’Aifa, l’Agenzia italiana per il farmaco, nella nota 96/2023, appena pubblicata in Gazzetta ufficiale. Di fatto si tratta di una parziale retromarcia sugli effetti positivi della vitamina D nella prevenzione del rischio di fratture. L’aggiornamento deriva dall’analisi di due studi, uno americano (Vital) pubblicato sul Nejm nel 2022, e uno studio europeo (DoHealth) reso noto nel 2020 sulla rivista Jama.

Nel documento, Aifa riduce anche da 20 a 12 ng/mL (o da 50 a 30 nmol/L) il livello massimo di 25-idrossivitamina D sierica (quella prevista nella maggior parte delle supplementazioni), necessario ai fini della rimborsabilità: insomma, al di sopra di queste soglie il Servizio sanitario nazionale non rimborsa più l’integratore.

Tra le altre novità, previste nella nota, c’è anche un paragrafo dedicato al nesso tra i benefici dell’ormone e il Covid-19. Ecco i chiarimenti della presidente della Società italiana di endocrinologia (Sie), Annamaria Colao, in un’intervista concessa a Virgilio Notizie.

L’efficacia della vitamina D nella lotta al Covid è stata smentita dall’Aifa: cosa significa?

“È una affermazione coerente con quelle che sono le caratteristiche della vitamina D. Sappiamo, infatti, che è un immunomodulatore potente, il che significa che ha un effetto positivo nel rafforzare il sistema immunitario, ma questo non vuol dire che serve a combattere la malattia Covid: in altre parole, se ci si è ammalati occorre seguire una terapia che preveda antivirali o anticorpi monoclonali, a seconda dei casi. Non di certo la sola vitamina D, che casomai potrebbe servire ad aumentare le difese immunitarie prima del contagio (a proposito, ecco gli alimenti in cui trovare la vitamina D, ndr. Gli studi condotti finora dicono che può avere questo effetto. Diverso è pensare che sia una cura. Insomma, se è vero che una mela al giorno toglie il medico di torno, non è altrettanto vero che si mangia una mela al giorno non ci si ammalerà mai”, spiega Colao.

Per l’Aifa un’assunzione di anni non modifica il rischio di frattura nella popolazione sana, senza fattori di rischio per osteoporosi: cosa ne pensa?

“La risposta prevede una piccola premessa. La nota di Aifa segue la valutazione di due studi, condotti su una larga popolazione seguita per 3 e 5 anni, analizzando il rischio fratturativo, dunque di fratture ossee. Il problema è che, mentre gli studi concludono che l’assunzione di vitamina D non ha influito nella riduzione di rischio, non hanno preso in considerazione anche altri fattori determinanti, come lo stile di vita delle popolazioni che sono state esaminate”.

Può fare qualche esempio? Cosa può aver influito su una maggiore o minore probabilità di fratture?

“La possibilità di problemi dipende dalla qualità dell’osso che a sua volta dipende da come ci si è alimentati e come si è cresciuti fino ai 30 anni, età dopo la quale l’osso non cresce più e può solo essere ‘perso’. Questo significa in concreto che non si è valutato, per esempio, se e quanto ci si è esposti ai raggi solari, che sono quelli che stimolano la produzione di vitamina D. Lo stesso vale per lo stile di vita, perché non si è preso in considerazione cosa si è mangiato, se l’apporto è stato sufficiente, oppure se si è trascorso un tempo sufficiente all’aria aperta – spiega Colao –. Quello che sicuramente possiamo dire è che in un campione di età media tra i 50 e i 60 anni, come quello dei due studi, la sola vitamina D non mette al riparo dal rischio di fratture”.

annamaria colaoFonte foto: IPA
Annamaria Colao, presidente della Società italiana di endocrinologia (Sie)

La vitamina D, in termini di integratori, è utile anche dopo i 50 anni?

“Quello che va chiarito è che la vitamina D, sotto forma di supplementazione e da sola, non è una cura, ma casomai è una forma di prevenzione che andrebbe seguita durante la fase di crescita, insomma entro i 30 anni. Può servire, a seconda dei casi, a evitare il rachitismo nei bambini oppure può essere utile per le donne in gravidanza. Insomma, non è una terapia, ma una forma di prevenzione, ma sarebbe scorretto dire che non serve”.

Perché allora Aifa ha deciso di restringere le possibilità di rimborso da parte del Servizio sanitario nazionale?

“Da un punto di vista economico la posizione di Aifa può essere comprensibile, nell’ottica di un necessario risparmio per la sanità, iniziando a tagliare su ciò su cui non si è sicuri. Ma io inviterei a una maggiore cautela per due motivi: il primo è che la vitamina D pesa molto poco sulle casse, ma in compenso interviene sullo stato di salute generale della persona. Il secondo motivo ha a che fare proprio con questo: in termini di prevenzione, come spiegavo prima, la vitamina D interviene nella riduzione dei rischi di malattie importanti. Quelle metaboliche come il diabete, quelle cardiocircolatorie (ictus e infarto), oncologiche o autoimmuni. Insomma, se una persona sviluppa l’allergia, prendere la vitamina D non la fa guarire, ma assumerla può contribuire a prevenire l’insorgere di altre patologie o al ridurne gli effetti”, conclude Colao.

Covid e carenza di vitamina D. Gli alimenti che ne hanno di più Fonte foto: IPA
Covid e carenza di vitamina D. Gli alimenti che ne hanno di più
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