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Donald Trump di nuovo presidente, cosa cambia per il resto del mondo: dalla guerra all'economia

L’analista Federico Petroni (Limes) commenta i risultati delle elezioni Usa vinte da Donald Trump: cosa cambia, per il mondo, con il "nuovo" presidente, dalla guerra all'economia

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Una vittoria travolgente, che consegna ancora gli Stati Uniti a Donald Trump. Lo spettro di contestazioni e ricorsi ai tribunali sembra quantomeno allontanato. Donald Trump sarà il 47° presidente Usa, dopo essere stato il 45°. Lui stesso ha definito la sua come “la più grande vittoria politica della storia” statunitense. Il tycoon ha ottenuto il voto popolare, la maggioranza dei grandi elettori (con 280 ha superato la soglia minima per ottenere la nomina), il successo al Senato e si accinge a replicare alla Camera. Le previsioni della vigilia di un testa a testa, dunque, sono state smentite. Per la terza volta i sondaggi hanno sbagliato: era accaduto in occasione del suo primo successo, nel 2016, poi nel 2020, nonostante la sconfitta di misura, e anche adesso. Ma cosa cambia adesso per gli Stati Uniti e per il resto del mondo? Dalla guerra all’economia, l’analisi di Federico Petroni, giornalista di Limes e curatore della rubrica Fiamme americane.

Il boom sui social e l’appoggio di Musk

Se negli ultimi giorni i sondaggisti si erano orientati su un risultato al fotofinish, ora Donald Trump ha ottenuto una vittoria chiara sulla candidata democratica.

Immediato l’incremento dei nuovi follower sugli account social del tycoon, con 734 mila nuovi “seguaci” su Instagram, 650 mila sulla piattaforma X, 600 mila su TikTok e 171 mila su Facebook.

donald trump presidenteFonte foto: ANSA
Donald Trump durante il discorso dopo la vittoria

Proprio il mondo social e dei giovani lo ha appoggiato in modo più ampio rispetto alle aspettative e ora Trump ringrazia anche uno dei maggiori sostenitori, il patron di Tesla e X, Elon Musk: “Abbiamo una nuova stella, una stella è nata: Elon. È un uomo straordinario, siamo stati insieme questa notte, ha passato due settimane a Philadelphia, in diverse parti della Pennsylvania, facendo campagna elettorale per me”, ha affermato Trump.

Le reazioni dal mondo dopo la vittoria di Donald Trump

“Vince chi ama il proprio Paese e non odia gli stranieri”, ha commentato la portavoce del Cremlino, Maria Zakharova, tra i primi a far arrivare un messaggio dopo l’esito delle elezioni Usa.

Dalla Cina il governo auspica la “coesistenza pacifica con gli Usa”, mentre il premier israeliano, Benjamin Netanyhau ha affermato che “con Trump si consuma il più grande ritorno della storia. La sua vittoria segna una forte ripresa dell’alleanza don Israele”.

Di “vittoria impressionante” ha parlato anche il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, mentre dall’Europa sono giunte le congratulazioni dei vertici istituzionali, da Metsola a Von der Leyen, senza dimenticare i leader di Francia, Germania e Italia, Macron, Steinmeier e Meloni.

L’intervista a Federico Petroni

Quanto è stata inaspettata questa vittoria netta di Donald Trump?

“In realtà per gli osservatori più attenti non lo è stata. Diversi sondaggisti indicavano un ampio sostegno per Trump, mai così popolare rispetto alle precedenti elezioni. Vivendo e viaggiando in America si capiva che fosse in grado di vincere anche il voto popolare e così è stato. A pesare è stata la profonda crisi di identità che sta attraversando l’America”.

Cosa significa? Il voto è stato un messaggio per l’establishment?

“Sì, c’è un forte risentimento, non solo per la gestione politica dell’ultimo quadriennio, ma anche a livello più generale nei confronti dell’establishment. Trump ha catalizzato questo sentimento, lo ha intercettato, mentre il partito democratico non ha saputo proporre un candidato credibile e in grado di proporre un’alternativa valida”.

Nel suo primo discorso da futuro Presidente, Donald Trump ha fatto ricorso a toni più pacati e “presidenziali”, presentandosi come il Presidente di tutti, nonostante la campagna elettorale sia stata molto accesa, ricca di attacchi a tratti violenti (compreso l’attentato di cui è stato vittima). D’altro canto forse la campagna elettorale democratica è apparsa più debole, meno chiara nella coerenza, e soprattutto “azzoppata” dopo il ritiro in corsa di Joe Biden e il cambio con Kamala Harris a 100 giorni dal voto.

“Ad Harris bisogna lasciare il beneficio del dubbio. Ha ereditato una campagna elettorale che non andava bene, per una generale insoddisfazione del Paese. Basti ricordare che il 72% degli americani si diceva scontento alla vigilia del voto e solo poco più del 40% approvava l’operato di Joe Biden. Kamala Harris si è rivelata una candidata debole, poco conosciuta e senza un’idea chiara di quali Stati Uniti avrebbe voluto. Non rispondeva alle domande dei giornalisti e non era ritenuta adatta anche da parte del partito stesso. Chiunque al posto suo, probabilmente, avrebbe perso”.

La sconfitta, quindi, è stata anche del partito democratico?

“Da tempo la maggioranza degli americani non si limita a chiedere di voltare pagine e guardare avanti con speranza, come proponeva Harris. C’è risentimento e Trump lo ha capitalizzato: nessuno tra i democratici è riuscito a presentarsi come “ribelle”. Solo Barak Obama lo aveva fatto in passato, salvo poi entrare a far parte dell’establishment, come era fisiologico che accadesse. Oggi, però, non c’è nessuna voce democratica anti-élite e il risentimento nei confronti di quella élite si è fatto sentire. Larga parte della popolazione si sente snobbata e non ascoltata”.

Cosa ne è stato del voto degli ispanici e dei neri, che si immaginava avrebbero appoggiato Harris?

“Il dato che colpisce è proprio che Trump non ha mai ottenuto un così ampio consenso da parte di ispanici, neri e giovani. Le donne hanno votato più per Harris, ma meno rispetto alle aspettative: lo dicono i numeri e vanno accettati. L’errore è pensare che l’America sia solo quella degli elettori democratici nelle grandi città o dei bifolchi delle campagne che sostengono Trump. Nel mezzo c’è una larga parte di popolazione che da tempo vive in difficoltà economiche e ha votato Trump perché insoddisfatta dell’amministrazione democratica”.

Quanto ha pesato l’economia, con il calo nei nuovi posti di lavoro e nel peso dell’inflazione?

“Riguardo all’inflazione, molti economisti sottolineano che il taglio delle tasse e i dazi promessi da Trump potrebbero spingerla al rialzo, ma bisogna vedere se poi sarà così. Sicuramente sarà difficile rimettere in sesto l’enorme debito pubblico americano, a causa della storica indisponibilità della popolazione americana ad accettare le tasse”.

Quanto alla politica estera, invece, uno degli slogan di Trump è stato “basta guerre”. È stato un messaggio efficace? Quanto sarà attuabile?

“Premesso che le guerre non sono condotte né chiuse da un solo uomo, la nuova presidenza potrebbe accelerare il raggiungimento di un accordo per l’Ucraina, molto più di quanto non ci si aspettasse da una amministrazione democratica, ma occorre capire a che condizioni. Più delicata la questione mediorientale”.

Cosa potrebbe accadere in Medio Oriente, con un’amministrazione che viene percepita più filoisraeliana?

“Il segnale che avrebbe vinto Trump è stato forse proprio il cambio del ministro della Difesa israeliano, Gallant, sostituito da Katz proprio mentre negli Usa si votata. La nuova amministrazione sarà certamente più filoisraeliana. L’Iran è percepito dai repubblicani come l’anello debole dell’asse del male, composto da Cina, Russia e Corea del Nord. L’effetto potrebbe essere un maggior margine per gli israeliani per condurre la guerra secondo i propri obiettivi, sia a Gaza che in Libano, senza escludere rappresaglie maggiori contro l’Iran stesso, ma questo non significherà dare il via libera a colpire i siti nucleari iraniani. Ci sarebbero forti resistenze perché vorrebbe dire entrare in guerra”.

È stata una campagna più violenta, anche nei toni, rispetto al passato. Per esempio negli ultimi discorsi, sia da parte di Harris (Trump “tiranno) che di Trump (con Liz Cheney, per esempio). Adesso, però, Trump si presenta come Presidente di tutti. Chi, forse, è più preoccupato è l’Europa.

“Sul fronte economico occorrerà vedere cosa succederà se davvero arriveranno nuovi dazi, che potrebbero danneggiare l’export europeo. Quanto alla difesa, il cosiddetto ‘ombrello americano’ è stato pesantemente messo in dubbio da tempo, ma lo sarebbe stato anche con una vittoria di Kamala Harris. La differenza è che Trump ha reso pubbliche alcune criticità: non ha paura di usare i dazi con chi non si conformerà a con quanto richiesto né di minacciare un minor contributo alla NATO. Ma va sgombrato il campo da un dubbio: gli Usa non usciranno dall’Alleanza, casomai lo minaccerà per costringere ad aumentare il contributo da parte degli altri stati membri”.

donald-trump-presidente-usa Fonte foto: ANSA
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