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Delitto di via Poma, l'omicidio di Simonetta Cesaroni è ancora un giallo: nessun colpevole dopo oltre 30 anni

A 32 anni dal delitto di via Poma non sappiamo ancora chi abbia ucciso Simonetta Cesaroni: tutti i misteri di uno dei gialli italiani più famosi

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Sono ormai trascorsi più di 30 anni dal compimento di uno dei delitti più feroci, commessi in Italia nel Dopoguerra: si tratta del ‘delitto di via Poma, in cui è stata assassinata Simonetta Cesaroni. Era il 7 agosto 1990 e, da allora, non c’è ancora un colpevole. Mancanza che rende l’omicidio uno dei più lugubri ‘cold case’ italiani.

L’ultimo giorno di Simonetta Cesaroni

Il 7 agosto 1990 è una torrida giornata estiva. Una di quelle tipiche del rovente agosto romano. Non tutti, però, sono in vacanza: ci sono ancora aziende in attività con il personale al lavoro.

In una di queste lavora una giovane impiegata capitolina, la 21enne Simonetta Cesaroni, dipendente di una società di servizi che ha sede in via Maggi, nella zona del Casilino.

Proprio a causa delle vacanze estive e della carenza di personale, la stessa è stata distaccata momentaneamente presso un’altra sede, in via Poma.

Ci sta andando da luglio, per due volte alla settimana, il martedì e il giovedì. Lavora di pomeriggio, dalle 15:30 alle 19:30.  

L’allarme della sorella Paola

Si fa sera. Quei pochi che sono ancora al lavoro, in una capitale semideserta, rientrano a casa. Simonetta no.

È un fatto anomalo, dato che è sempre precisa e puntuale: così, la sorella Paola si insospettisce e si preoccupa. Teme che possa esserle successo qualcosa.

Il tempo passa, l’ansia aumenta: alle 20:30, quindi, Paola Cesaroni va a cercare la sorella insieme al fidanzato.

Si presenta alla porta di casa di uno dei datori di lavoro di Simonetta, l’uomo la rassicura dicendole che, probabilmente, mentre Paola è andata da lui, Simonetta è già tornata a casa. Del resto, sottolinea, il suo orario di lavoro è fino alle 19:30 e può darsi si sia leggermente attardata per sbrigare le ultime pratiche prima della pausa estiva.

Paola, però, non si tranquillizza. Qualcosa a livello inconscio la turba. Chissà, forse una sorta di sesto senso prodotto dal vincolo di sangue.

Ribadisce che la sorella, contrariamente alle sue abitudini, non ha mai telefonato durante l’intero turno di lavoro.

Paola torna a casa insieme al fidanzato, ma di Simonetta non c’è traccia: dietrofront, si torna nuovamente dal datore di lavoro e quindi alla sede dell’ufficio, in via Carlo Poma 2, al terzo piano della scala B.

Il delitto di via Poma

Paola Cesaroni e il suo fidanzato sono accompagnati in via Poma dal datore di lavoro e da suo figlio.

Si fanno aprire dalla portinaia, arrivano alla porta dello studio, chiusa con ben quattro mandate.

Accendono le luci, controllano tutte le stanze: in una di queste, perlustrata dal datore di lavoro, c’è il corpo senza vita di Simonetta Cesaroni.

È seminudo, con le braccia e le gambe in posizione divaricata. Addosso ha soltanto una canottiera di seta e un paio di calze bianche.

Inoltre, c’è un particolare estremamente raccapricciante: ha il reggiseno arrotolato intorno al collo.

Manca tutto il resto: maglietta, pantaloni, catenina d’oro e borsellino. Le sue scarpe sono in un angolo della stanza.

Sul posto arriva la polizia, poi la Scientifica, quindi il medico legale: scattano i primi rilievi sul cadavere e sulla scena del crimine.

Simonetta Cesaroni uccisa con 29 coltellate

Simonetta Cesaroni è stata aggredita selvaggiamente, percossa e colpita con furia bestiale da 29 coltellate al ventre, alla carotide, al pube, alla giugulare. Il volto è quasi irriconoscibile.

Si pensa, subito, a un tentativo di violenza sessuale: ipotesi però che viene meno dopo l’autopsia, che afferma come Simonetta non sia stata violentata.

Per gli inquirenti, però, la scena del delitto resta fortemente anomala: l’aggressione è brutale, ma la stanza si presenta pulitaordinata. Finanche in modo eccessivo.

Ciò che è stupefacente è la totale assenza di sangue del tutto inverosimile e completamente incompatibile con la dinamica esecutiva del delitto.

La spiegazione è una sola: il sangue è stato pulito. Ciò che si riscontra è del tutto asimmetrico ed incongruo per il modus operandi di un solo individuo.

Ecco che qualcuno, fra gli inquirenti, inizia ad ipotizzare che probabilmente si tratti di una di quelle scene del delitto in cui agiscono (in contemporanea o in tempi diversi) due soggetti.

Probabilmente, l’omicida – brutale, impulsivo e privo di controllo in un tentativo di violenza sessuale ha commesso il delitto – e un secondo individuo – dal temperamento calmo, freddo e razionale: quest’ultimo sarebbe intervenuto dopo per ripulire la scena e rimettere ordine.

Le indagini e l’ora del decesso

Gli inquirenti si mettono subito all’opera. Sanno che, in questi casi, il fattore vincente è il tempo.

Partono sempre dalla principale fonte di notizie dello stabile, che, come in ogni palazzo, è il portiere. L’uomo si chiama Petrino Vanacore ed è di origine pugliese.

vanacore via pomaFonte foto: ANSA
Pietrino Vanacore

Interrogato, non apporta nessun contributo alle indagini, dal momento che riferisce di essere stato quella sera al quinto piano a casa di un vecchio ingegnere per fargli compagnia durante la notte, dato che è solo dopo la partenza della moglie per le vacanze.

Approfonditi gli accertamenti investigativi, si appura che nessuno ha sentito le urla strazianti di Simonetta prima di essere uccisa: è anomalo, ma potrebbe esserci una spiegazione plausibile, visto che lo stabile è prevalentemente sede di uffici, che ad agosto sono vuoti.

Anzi, al riguardo, si viene a sapere che la vittima aveva espresso dei timori per il fatto di dover lavorare da sola.

Intanto, viene stabilita l’ora della morte. Si ipotizza fra le 17:35, ora in cui la vittima ha effettuato la sua ultima telefonate, e le 18:20, orario in cui avrebbe dovuto telefonare a uno dei suoi datori di lavoro e non lo ha fatto.

Non può essere stata una banale dimenticanza, dal momento che la vittima era precisa e meticolosa.

Un palazzo sinistro e l’arma del delitto

Gli inquirenti, come sempre in questi casi, passano al setaccio la vita della vittima e di chi frequenta il complesso condominiale.

Per quanto concerne Simonetta, non trovano nessun elemento significativo: conduceva una vita riservata e tranquilla ed era fidanzata con un suo quasi coetaneo, Raniero Busco. La relazione era un po’ altalenante, caratterizzata da alti e bassi, ma niente di particolare.

In riferimento all’edificio, invece, gli investigatori scoprono che 6 anni prima un’anziana era stata uccisa con modalità egualmente brutali: anche il quel caso non si era mai scoperto il colpevole.

Si ipotizza quindi un collegamento fra i due casi, e quindi l’omicida viva nel condominio o che comunque lo frequenti.

Nel frattempo ci si convince sempre di più che l’arma del delitto sia un tagliacarte.

L’indizio delle pulizie

Tra i sospettati fa la sua comparsa il portiere del palazzo, Petrino Vanacore: è un tipo strano, alterna momenti nei quali è taciturno e introverso a momenti in cui parla troppo e male, soprattutto con i giornalisti.

Ha la pessima abitudine di raccontare i fatti non sempre in modo corrispondente al vero: contro di lui ci sono anche altri indizi, come una macchia di sangue (che, dopo accurati accertamenti, si accerterà essere la sua). Alla fine, l’uomo, è sottoposto a fermo giudiziario.

Vanacore si difende dicendo che quel pomeriggio è stato in un negozio di ferramenta per acquisti (dei quali esibisce scontrino con orario), per poi dedicarsi alla cura delle piante in due appartamenti vuoti, su richiesta dei proprietari in vacanza al mare.

E qui si scopre che ha mentito: gli inquirenti dimostrano che le piante degli appartamenti sono quasi arse dal sole di agosto e non sono state innaffiate da diversi giorni.

Alla fine, dopo 20 giorni di carcere, Vanacore viene comunque liberato perché non sussistono le esigenze cautelari: resterà comunque indagato fino alla fine dell’inchiesta.

La falsa pista dei datori di lavoro

Andando avanti con le indagini e seguendo altre piste, alternative a quella di Vanacore, entrano nell’inchiesta, in momenti diversi, entrambi i datori di lavoro della vittima.

A fortificare i sospetti contro uno dei due c’è il fatto che non abbia comunicato subito l’indirizzo del luogo di lavoro di Simonetta, probabilmente – secondo gli inquirenti – per guadagnare tempo e, come in ogni thriller che si rispetti, tornare sul luogo del delitto a sistemare e depistare.

Vengono effettuate delle scrupolose indagini, soprattutto di tipo tecnico ematico, che escludono ogni nesso e/o collegamento dei due con il delitto: è un’altra falsa pista.

Il nipote dell’ingegnere 

Ad un certo punto, entra in scena un nuovo sospettato: è il nipote di un anziano ingegnere che vive nel palazzo, che spesso si reca dal nonno e quindi frequenta con regolarità lo stabile.

Il giovane è un tipo strano, attira la curiosità della gente suscitandone i pettegolezzi: pedinato, continua a compiere movimenti sospetti che destano l’attenzione degli inquirenti, anche nei mesi successivi all’orribile omicidio.

via pomaFonte foto: ANSA

Sembra il sospettato ideale, finisce in breve tempo tra gli indagati: viene effettuata una comparazione fra le tracce ematiche rinvenute nella scena del crimine ed il dna del giovane, ma non risulta alcuna compatibilità.

Ciononostante, alcuni fra gli inquirenti continuano a sospettare di lui. Nel frattempo si fa strada (ancora una volta) l’ipotesi che Vanacore non sia l’omicida ma che, per motivi sconosciuti, abbia aiutato l’assassino.

Il colpo di scena

Gli anni passano, le indagini vanno avanti e le nuove tecniche investigative consentono sono di supporto.

I Ris dei Carabinieri, dopo oltre 10 anni, riesaminano tutti i campioni ancora analizzabili: vengono sottoposti ad accertamenti approfonditi, prima non effettuabili, dei micro-campioni di presunta saliva umana, presenti sia sul corpetto sia sul reggiseno della vittima, e una traccia ematica mista (con sangue di Simonetta e dell’assassino) sullo spigolo della porta della scena del crimine.

Effettuati i dovuti riscontri, si scopre che corrispondono a un uomo che i più non ricordano nemmeno: si tratta di Raniero Busco, il fidanzato di Simonetta. Per lui è l’inizio di un lungo incubo e di un calvario giudiziario.

Il caso Busco

Contro Raniero Busco, oltre a delle tracce genetiche evidenziate dai Ris, ci sono anche dei pesanti indizi, fra i quali una sua versione ritenuta falsa dagli inquirenti come alibi.

Certo è che il 3 febbraio 2010 inizia il processo contro di lui.

Nel frattempo, ritorna sotto le luci della ribalta anche Vanacore. L’uomo, turbato e scosso, è tornato in Puglia, ma è l’ombra di se stesso.

L’anziano portinaio è molto provato da 10 anni di indagini, sospetti, carcere, maldicenze: il 12 marzo 2010 è chiamato a deporre nel processo contro Busco, ma si suicida tre giorni prima.

Il fatto desta molte perplessità e solleva dei dubbi. Soprattutto per la coincidenza temporale.

In ogni caso, l’8 marzo 2011 l’indagine sulla sua morte viene archiviata come suicidio.

Intanto Busco, due mesi prima, il 26 gennaio 2011, è stato ritenuto colpevole e condannato a 24 anni di reclusione.

Durante il processo di appello, però, avviene un’autentica rivoluzione probatoria, che demolisce completamente il teorema dell’accusa.

Le prove genetiche vengono smontate e l’alibi dell’imputato vieneconfermato: si arriva all’assoluzione dell’imputato, il 27 aprile 2012, per non aver commesso il fatto.

buscoFonte foto: ANSA
Raniero Busco parla con i giornalisti insieme alla moglie Roberta, il giorno dopo la sentenza di assoluzione in Cassazione per il processo di via Poma sull’omicidio di Simonetta Cesaroni, Roma 27 febbraio 2014

La sentenza di assoluzione diviene definitiva in Cassazione il 26 febbraio 2014.

Raniero Busco non è l’assassino di Simonetta Cesaroni.

Prospettive future 

Secondo alcune indiscrezioni giornalistiche, nella primavera del 2022, sarebbero state riaperte le indagini a carico di un soggetto già lambito marginalmente dall’inchiesta.

Dal punto di vista logico e scientifico, ma soprattutto criminologico, sono solo speranze inverosimili.

Credere che – nonostante tutte le supertecnologie criminalistiche oggi disponibili (che, fra l’altro, hanno già fallito nel processo a Busco) – si possa individuare l’autore di un omicidio dopo 32 anni  è quasi un’utopia.

A meno che non ci sia un’implausibile e inverosimile confessione dell’omicida. Ammesso che, per un’inesorabile legge del tempo, sia ancora in vita.

simonetta-cesaroni Fonte foto: ANSA
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