Cosa succede all'ex Ilva tra il Governo e ArcelorMittal e perché si parla di divorzio consensuale: gli scenari
Salvatore Romeo, storico esperto di ex Ilva, spiega la situazione a Taranto tra il Governo e ArcelorMittal: perché si parla di divorzio consensuale
Un futuro che si annuncia fosco per quello che è uno dei più grandi stabilimenti d’Europa. C’è grande confusione sotto al cielo di Taranto, anche tra i palazzi romani. Il Governo, sul dossier dell’ex Ilva, sarebbe al lavoro per arrivare a un accordo per un divorzio consensuale con ArcelorMittal ed evitare un lungo contenzioso legale. Una trattativa “complicata”, conferma Salvatore Romeo, ricercatore di Storia Contemporanea dell’Università Tor Vergata di Roma, con al centro la composizione societaria. Romeo si occupa principalmente di Storia dell’ambiente, Storia dell’industria, Storia urbana, Storia del Mezzogiorno e su quella che oggi si chiama Acciaierie d’Italia ha scritto moltissimo. L’intervista ai microfoni di Virgilio Notizie.
Romeo, qual è lo stato dell’arte nella vicenda dell’ex Ilva e lo stabilimento di Taranto?
“È in corso una trattativa complicata tra il Governo e l’impresa che si è aggiudicata l’impianto nel 2017, ArcelorMittal, sulla composizione societaria dell’ex Ilva: come devono essere spartite le quote societarie, chi deve avere il controllo. È un problema che si trascina ormai da diversi anni, da quando ArcelorMittal, dopo essersi aggiudicata la gara di vendita dell’azienda, ha deciso a un certo punto di tirarsi indietro. Da quel momento c’è stata una lunghissima trattativa che continua oggi e in cui non è chiaro effettivamente chi dovrà controllare l’azienda da qui ai prossimi anni né quali saranno le prospettive industriali. ArcelorMittal al momento ha una quota di controllo in Acciaierie d’Italia, il 62%. Quello di cui si sta discutendo è se lo Stato deve entrare con una quota di maggioranza. Quindi al momento ArcelorMittal è in una posizione di forza”.
Quali sono le prospettive industriali dello stabilimento di Taranto?
“Abbiamo uno stabilimento che è tra i più grandi d’Europa e che però ora viaggia al minimo della sua capacità produttiva: questo è il tema fondamentale. Il punto è non solo chi dovrà controllare l’impresa ed esserne proprietario, ma soprattutto cosa vorrà farne, quali strategie industriali intende mettere in campo. È un problema che va avanti da diversi anni, da quando i Riva hanno lasciato la proprietà. Da allora in poi, passando attraverso i commissariamenti dei vari governi e attraverso la gestione di ArcelorMittal, non è mai stata chiara la prospettiva industriale. Il colosso franco-indiano aveva acquistato questa azienda anche per rilanciarla e risanarla dal punto di vista ambientale: ma di tutto questo si è visto molto poco negli ultimi anni. La domanda che lei pone quindi resta aperta. Finché non ci sarà un’impresa che abbia chiara l’idea su cosa fare di questa azienda e su come rilanciarla, la situazione rimarrà indefinita”.
L’ex Ilva, a Taranto
C’è anche un problema di mercato generale?
“Ci sono vari problemi e incognite a livello di mercato. Nel settore siderurgico a livello mondiale c’è una situazione di sovracapacità produttiva: in pratica c’è più capacità produttiva rispetto a quello che il mercato riesce ad assorbire in termini di domanda. Questo è un fatto strutturale col quale si confrontano però tutte le imprese. ArcelorMittal però non è un’impresa tra le tante: è il principale produttore di acciaio del mondo. In qualche modo contribuisce a fare il mercato. Può decidere su scala globale quali impianti marginalizzare e valorizzare”.
E Taranto è un impianto marginalizzato?
“Se dobbiamo giudicare sulla degli ultimi anni possiamo dire di sì. Mi sembra evidente, alla luce del fatto che le prospettive di rilancio definite al momento dell’acquisto non sono state realizzate”.
E perché?
“Bisognerebbe chiederlo a loro. Il punto è che quando hai uno stabilimento così grande e importante, o concentri buona parte della produzione su scala europea su questo stabilimento, sacrificando magari impianti un po’ più piccoli – ArcelorMittal ha impianti soprattutto in Francia, qualcosa in Belgio, in Germania, in Spagna -, oppure uno stabilimento così grande diventa un peso se non funziona al massimo delle sue potenzialità. Invece di creare economie di scala e quindi profitti, uno stabilimento così grande, se marcia a rilento, rischia di creare diseconomie di scala e quindi perdite. Di questo se ne sono accorti anche i commissari di Governo negli anni scorsi quando Ilva ha prodotto ingenti perdite proprio perché non era al massimo delle capacità”.
Il Governo quali strade ha davanti?
“Il punto è che l’Esecutivo non è sovrano in questa decisione, al di là di tutte le retoriche politiche che si possono fare. Si deve confrontare con questa grande impresa che comunque ha vinto un bando di assegnazione e resta formalmente proprietaria dello stabilimento, per quanto abbia minacciato di volere andare via. Tutto rientra in una partita complicata. Il Governo può voler aumentare la sua quota di capitale e arrivare alla maggioranza, ma questo lo deve decidere anche ArcelorMittal. Il Governo ha fatto un’offerta per arrivare al 66% di capitale e quindi acquisire il controllo. Ma il colosso pare che abbia rifiutato. E il Governo inevitabilmente si deve confrontare con questo attore: non è una posizione sicuramente facile. ArcelorMittal può giocare le sue carte e orientare la decisione finale verso l’esito che meglio preferisce. La posizione di questo Governo non è sicuramente facile, e non lo era nemmeno quella di quelli precedenti governi. Forse c’è stato un peccato originale nel mettere questa grande azienda all’asta, ma quella è un’altra storia. Nel momento in cui si è data questa azienda a una grande multinazionale, un’impresa privata come ArcelorMittal, è inevitabile che anche il loro parere conta. E tutto scaturirà da questa trattativa”.
Ma cosa vuole ArcelorMittal?
“Pare che vogliano mantenere un controllo manageriale, che la gestione dell’azienda continui a essere condivisa. Vuol dire in sostanza che ArcelorMittal può continuare a incidere sulle strategie industriali. Questo è quello che si legge. E non è del tutto peregrino, perché Taranto rappresenta un pezzo importante della siderurgia europea e mantenerne il controllo, in un modo o nell’altro, vuol dire condizionare il mercato. Per cui ArcelorMittal probabilmente non vuole uscirne del tutto, ma continuare a dire la sua sulla gestione. Se uscisse del tutto, banalmente, potrebbe arrivare un concorrente, che con il controllo di uno stabilimento così importante potrebbe creare problemi sul mercato europeo al colosso franco-indiano. Ci sono molti interessi in gioco”.
Che obbligazioni ha ArcelorMittal rispetto al territorio, i lavoratori e le lavoratrici e l’indotto?
“L’azienda sta giocando anche lì una partita, nel senso che il rischio è sempre che i lavoratori e le lavoratrici – diretti, dell’indotto e le stesse imprese sempre dell’indotto – vengano un po’ usati all’interno della trattativa. È un rischio che è sempre presente in questo genere di trattative molto delicate. Mettere sul piatto il rischio che migliaia di lavoratori possano perdere il posto di lavoro dalla sera alla mattina è una leva pesante”.
La questione ambientale a che punto è? Che prospettive ha?
“ArcelorMittal ha firmato un piano ambientale, assunto dal Governo quando l’azienda è stata ceduta, con degli impegni chiari: realizzare una serie di investimenti in campo ambientale per rendere la produzione sostenibile, quindi non una riconversione. È difficile dire con chiarezza quanto sia stato fatto. E c’è un’altra partita, quella legata soprattutto ai fondi PNRR per introdurre anche innovazioni di processo, ovvero per modificare una parte del processo produttivo attraverso delle innovazioni più spinte: forni elettrici, impiego dell’idrogeno, prospettive più avanzate. Ma questa è una partita che riguarda il Governo. ArcelorMittal si è impegnata a modificare gli impianti esistenti, non a costruirne di nuovi per sostituire una parte dell’attuale ciclo”.
Le emissioni sul cielo di Taranto sono sempre inquietanti…
“Il piano ambientale non è stato certamente completato del tutto. Il punto è che si può realizzare concretamente un piano ambientale se alla base c’è una strategia industriale. Un imprenditore che interesse ha ad attuare un piano ambientale se poi non sa cosa farsene di quegli impianti? Lo fa se ha interesse a produrre lì. Ed è questo che non è chiaro. Se ArcelorMittal ha interesse a usare quegli impianti e investire sul rilancio industriale dovrà necessariamente anche realizzare una serie di migliorie sul piano ambientale. È obbligata dalla legge e dalle normative europee. Non si può più sfuggire, dopo quello che è successo a Taranto negli ultimi dieci anni non sarebbe più tollerabile. C’è anche una magistratura che preme e costantemente monitora la situazione”.
Che futuro prevede?
“Un futuro molto fosco, in cui le certezze sono poche e le incognite tantissime. C’è un rischio molto serio anche di dismissione industriale. La partita di Taranto va vista in uno scenario più ampio che riguarda il futuro dell’industria in Italia. L’altro giorno i sindacati hanno denunciato che anche a Mirafiori, altro grande stabilimento industriale del nostro paese, c’è un rischio di ridimensionamento della produzione, già in atto. E quindi di svuotamento. Il punto è capire, ed è una questione che andrebbe posta alle classi dirigenti del Paese, quale futuro si immagina per l’industria in Italia. Se può averlo, un futuro – e al massimo degli impegni, anche in campo ambientale – oppure se ci si immagina uno scenario diverso e una porzione più ristretta per l’industria in Italia. Un tema che meriterebbe discussione pubblica, perché la situazione sta diventando grave”.