Gli Houthi attaccano le navi nel Mar Rosso, chi sono e perché lo fanno: l'intervista a Giuseppe Dentice
Gli Usa hanno lanciato una coalizione contro gli Houthi dopo gli attacchi alle navi nel Mar Rosso: ci sarà pure l'Italia, intervista a Giuseppe Dentice
Il Medio Oriente rimane una polveriera e non solo per il conflitto a Gaza e in Israele. Ora le attenzioni sono rivolte agli attacchi a navi mercantili nel Mar Rosso, che negli ultimi giorni sono stati intensificati da parte degli Houthi, la milizia sciita in Yemen che dai primi anni 2000 combatte le autorità ufficiali della capitale Sanaa. La compagnia di navigazione danese Maersk ha già annunciato un cambio nelle proprie rotte, evitando il pericoloso passaggio dal Canale di Suez e preferendo la più lunga e dispendiosa circumnavigazione dell’Africa. Gli effetti, però, rischiano di impattare sull’economia globale, in particolare su quella asiatica e soprattutto europea, traducendosi in rincari, soprattutto dei beni energetici ossia carburanti. L’intervista a Giuseppe Dentice, responsabile del desk MENA (Medio Oriente e Nord Africa) del Centro Studi internazionali (CeSI).
Quanto traffico mondiale transita dal Mar Rosso
Secondo quanto spiegato da Giuseppe Dentice, il Mar Rosso è uno snodo cruciale per quel che riguarda il commercio.
L’esperto, infatti, sottolinea che “il 10% del traffico marittimo mondiale” passa proprio da lì.
I miliziani Houthi, in Yemen
L’intervista a Giuseppe Dentice
Chi sono esattamente gli Houthi, che ora sono balzati al centro delle attenzioni e preoccupazioni internazionali?
“Si tratta di una milizia sciita ziadita, dunque araba, che nasce e si sviluppa in Yemen, ma professa un ramo minoritario dello sciismo, afferente allo zaidismo, una frangia del credo sciita. Dai primi anni 2000 ha portato avanti azioni contro le autorità nazionali yemenite. Dal 2010 2010 in poi ha conosciuto una forte crescita, sia nella popolarità che nella sua forza vera e propria”.
Si tratta, dunque, di una milizia armata che da potenza locale si è trasformata negli anni in realtà regionale?
“Sì. Agisce sulla falsariga di quanto fanno anche Hamas in Palestina ed Hezbollah in Libano, pur essendo profondamente diverse. Hezbollah e gli Houthi, in particolare, sono entrambe di fede sciita, ma hanno agende diverse. Dal 2014 c’è stata una rivoluzione in Yemen, che poi è sfociata nella guerra in corso dal 2015, anche se di recente erano in corso colloqui di pace. Insomma, non è un attore che nasce oggi, ma nel recente passato e si è man mano radicato nel presente”.
Che tipo di rapporto c’è tra gli Houthi e l’Iran, che appoggia apertamente Hezbollah in Libano?
“C’è una certa convergenza di interessi tra Iran e Houthi, anche se il tipo di rapporto non è come quello con Hezbollah che invece, pur avendo una sua identità, è emanazione di Teheran. Gli Houthi hanno un’agenda molto locale che guarda principalmente lo Yemen. Certo, le sue azioni hanno un’influenza su una parte della penisola araba, come l’Arabia Saudita, l’Oman e in parte gli Emirati Arabi Uniti. Prova ne sono i droni usati per attaccare le infrastrutture civili emiratine. Il supporto iraniano riguarda soprattutto la formazione, i finanziamenti in termini di capitali e di equipaggiamento”.
La prima nave attaccata, a novembre, era riconducibile a Israele. Ora le incursioni si sono intensificate, la danese Maersk ha annunciato lo stop al passaggio da Suez, preferendo la più lunga e costosa circumnavigazione dell’Africa, seguita da altre compagnie. Ci saranno ricadute economiche sui prezzi delle merci. Il vero obiettivo è Israele o c’è un piano di maggior ampiezza?
“Forse negli ultimi giorni si è fatta un po’ di confusione per la frenesia di collegare tutto quanto sta accedendo. Gli Houthi potrebbero avere la capacità, con i missili, di colpire Israele, in particolar Eilat che si trova in un arco molto circoscritto e raggiungibile dalla milizia yemenita. È vero che hanno adottato una retorica filopalestinese e antisionista molto marcata, ma usano questa narrazione soprattutto per i propri interessi: l’obiettivo è fare pressioni da un lato su sauditi ed emiratini, nell’ambito dei colloqui di pace in Yemen che sono in stallo, dall’altro sugli Usa (che nel frattempo hanno spostato la portaerei Eisenhower, ndr) con cui il confronto rimane acceso sul Mar Rosso”.
A essere preoccupato è anche l’Egitto, che dal passaggio dal Canale di Suez incassa 9,3 miliardi di dollari all’anno. Ci potrebbero essere ricadute economiche e in termini di possibili nuovi scontri o situazioni di crisi, sia per Il Cairo che per i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo?
“Sì, certamente. Ricordiamo che per l’Egitto è stato un anno record in quanto a incassi dalle royalties di Suez. Per un Paese la cui economia vive una profonda crisi, la possibilità di ricadute negative non è una buona notizia. Ma non dimentichiamo che la questione marittima non è un tema di oggi. Da almeno il 2021 si sono verificati diversi attacchi da parte degli Houthi verso la costa yemenita del Mar Rosso, da Hodeidah ad Aden, anche se le ricadute erano limitate alla guerra yemenita. Ora, con la crisi a Gaza, l’impatto si è ampliato, ma non perché si miri a intervenire in quell’area: l’obiettivo degli Houthi era soprattutto influenzare le dinamiche marittime nel Mar Rosso”.
Gli Usa hanno lanciato una coalizione, chiamata Prosperiry Guardians, che coinvolge 10 paesi, tra cui l’Italia. Gli Usa hanno già disposto l’invio di tre cacciatorpedinieri americani, ma non saranno i soli: qual è l’obiettivo?
“Intanto ricordiamo che parliamo di un’area che è l’epicentro del commercio marittimo globale, da cui passa un decimo del commercio mondiale, specie di energia. Bloccare uno dei colli di bottiglia fondamentali del commercio marittimo significa bloccare l’autostrada del mare tra Europa e Asia. Il fatto che Maersk e altre compagnie ripensino alle proprie tratte, circumnavigando l’Africa e aggiungendo 11 giorni di navigazione, si tradurrà in potenziali rincari del 15/20% in termini di costi per le compagnie stesse. Tutto ciò si ripercuote inevitabilmente sul consumatore finale. Per questo si dovrebbero preoccupare soprattutto gli europei (e gli asiatici) prima ancora degli americani”.
Eppure la coalizione internazionale è stata proposta e lanciata da Washington. Con quali obiettivi, quindi?
“Si tratta di un’azione sostanzialmente di deterrenza, per prevenire ulteriori minacce nel già complicato scenario mediorientale. Tutto, però, dipenderà dalle regole di ingaggio, che ancora non si conoscono. Gli Stati Uniti, ma anche i Paesi europei stanno manifestando posizioni molto caute. L’Italia aderisce con una fregata della Marina Militare, ma anche gli arabi mostrano prudenza perché ognuno ha da perdere da questa situazione”.
Uno dei rischi sembra quello di scatenare la reazione dell’Iran. In questo puzzle, qual è il ruolo della Repubblica islamica, dunque? Può avvantaggiarsi dalla situazione di crisi generale?
“In questa situazione complicata si inserisce certamente anche l’Iran e uno degli obiettivi della task force potrebbe essere proprio un’azione di deterrenza nei suoi confronti. Le autorità di Teheran possono trovare giovamento da queste crisi molteplici, ma a livello ufficiale non hanno mai dato un forte engagement alle ultime iniziative degli Houthi nel Mar Rosso, perché sono preoccupati dal possibile conflitto che li coinvolgerebbe in modo diretto. L’atteggiamento iraniano, dunque, è ambiguo: mira a trarre vantaggi in modo indiretto, ma non chiarisce il proprio ruolo”.